domenica 17 marzo 2013

IN QUESTA ITALIA CHE NON CAPISCO


In questa Italia che non capisco

Mark Twain

Mattioli 1885

€ 15,90
Per quel che capisco, l'Italia per millecinquecento anni ha concentrato tutte le sue energie, tutte le sue finanze e tutta la sua operosità nella costruzione di una vasta gamma di meravigliosi edifici ecclesiastici, affamando metà dei suoi cittadini pur di riuscirvi. Al giorno d'oggi, è un grande museo di magnificenza e miseria. (...) È il paese più disgraziato e principesco della terra.

All'alba del 1866, Mark Twain decide di intraprendere una crociera per l'Europa con il piroscafo Quaker City che lo porterà per sei mesi tra Francia, Italia e vicino Oriente: a poco più di trent'anni, Twain non è ancora il celebre scrittore che narra le Avventure di Tom Sawyer, ma un (semplice?) letterato e un giornalista affermato. In questa Italia che non capisco è un testo editoriale composto dall'editore Mattioli 1885 (con la traduzione di Sebastiano Pezzani) che raccoglie gli estratti riguardanti la sua permanenza in Italia, i quali, insieme ad altri concernenti le successive tappe del viaggio, sono stati pubblicati a puntate verso la fine dell’Ottocento con il titolo The Innocents Abroad.
Lo scrittore Mark Twain
Il viaggio parte da Genova, tappa obbligata per chi arriva dal mare: portici signorili e antichi palazzi in marmo ora disabitati sono l'emblema di una città in decadenza, che ha visto passare troppo velocemente il tempo dello splendore durante l'egemonia marinara. Di positivo, a Genova, ci sono le donne, la cui bellezza rimane impressa nella mente di Twain mentre il treno corre già in direzione di Milano. Nel tragitto tra Genova e Milano, ricordo bene le parole che Twain tributa ai territori nei quali sono nato e cresciuto: una "regione montuosa i cui picchi erano illuminati dai raggi del sole, i cui pendii erano punteggiati di ville graziose", le "gallerie fresche" e poi, una volta passato l'Appennino, si arriva in pianura. "Superata Alessandria, siamo passati accanto al campo di battaglia di Marengo". Milano si presenta tra le sue consuete luci ed ombre: la ricchezza artistica e museale attrae molto lo scrittore, che visita i principali monumenti cittadini, senza dimenticare il Duomo, cui dedica molte pagine e un'attenzione da appassionato, declamandone le dimensioni e perdendosi in una descrizione particolareggiata. Tuttavia, ad irritare non poco Twain, è il fatto che a Milano è impossibile rintracciare un solo pezzo di sapone. Lasciata alle spalle la Madunina, la carovana di Twain procede spedita verso le bellezze del lago di Como e poi in direzione di Venezia, tagliando per Bergamo e Padova. La città lagunare, secondo lo scrittore, è "finita preda della povertà, della trascuratezza e di una triste decadenza", sebbene, al chiaro di luna, appaia "ancora una volta la più sontuosa tra tutte le nazioni della terra". Il viaggio prosegue verso Firenze, nella quale è infastidito dai chilometri di dipinti che attraversano la città e dove tutto, gli vien detto, è opera di Michelangelo. Quindi prosegue per Roma, dalla quale rimane attratto, ma non troppo: l'anticlericalismo del suo spirito puritano, che lo rende felice per la confisca dei beni della Chiesa e in nome del quale non risparmia la sua indignazione verso la folla di preti che incontra ovunque, è feroce e motivato dal fasto delle chiese e dei conventi e, ovviamente a Roma, raggiunge l' acme; a lato di queste considerazione, dedica pagine dissacranti al culto dell'antico e non risparmia racconti esilaranti di sua produzione sul Colosseo e i giochi gladiatori.

La cupola del Brunelleschi e il campanile di Giotto a Firenze
Il Leit-motiv di tutto il libro - lo avrete capito - è il desiderio dello scrittore di evidenziare, con ironia sprezzante e superba, i controsensi stridenti di un Paese che in quel periodo sta vivendo grosse trasformazioni. La sua finta innocenza, che richiama l'ingenuità dei personaggi di Tom Sawyer o Huckleberry Finn, nasconde una candida ignoranza in tema di arte, architettura e storia italiana, della quale si vergogna , ma per la quale si giustifica dicendo che in America non è contemplata; anzi, appare infastidito da questo fardello della storia che, a suo dire, ha trascinato nel baratro un Paese che giudica senza veli: "Questo paese è in bancarotta. Non c'è una solida base per opere grandiose", riferendosi alla rete ferrata e alla pomposità delle stazioni (!)
Twain ha l'occhio vigile e spregiudicato, che gli permette di apprezzare il modo di vivere delle classi agiate italiane, meno operose di quanto non siano quelle del suo paese: "In America andiamo di fretta". Insomma, Twain guarda al Belpaese e alla sua civiltà con sentimenti contraddittori: è attratto dal contesto paesaggistico - campagna e città indistintamente, pur accorgendosi che le città italiane sprofondano di giorno in giorno in un immobile passato: non a caso, rimane sgomento dinanzi al pessimo spettacolo della loro decadenza - Genova e Venezia, solo per fare un paio di esempi -, alla diffusa miseria, alla protervia delle classi dirigenti che rivendicano di essere superiori al popolo e continuano a mantenere i propri privilegi. Per Twain, l'Italia è un Paese senza redenzione, senza speranze per il futuro, senza possibilità di crescita: "il paese più disgraziato e principesco della terra".
Se lo stile è abbastanza buono per quasi tutto il libro, a rallentare la lettura fin quasi ad annoiare sono, da una parte, le soventi divagazioni dell'autore, con racconti a volte aneddotici, a volte del tutto inventati e suggeritigli dal contesto; dall'altra parte, a stancare è lo schema del bastone e della carota che Twain applica ad ogni aspetto del nostro Paese: tutte le città che l’autore incontra nascondono pecche che rasentano lo stereotipo, come  l’architettura (se c’è è troppa, se non c’è è carente), l’eleganza (ostentata oppure triste miseria), i laghi (piccole pozze d’acqua rispetto agli enormi bacini americani) e le donne (troppo belle o troppo brutte con barba e baffi da fare invidia ad un uomo).

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