mercoledì 29 aprile 2009

MARCELLO VENEZIANI RACCONTA IL SUD


Sud
Un viaggio civile e sentimentale

Marcello Veneziani

Mondadori


€ 17,50


Marcello Veneziani ritorna alle origini. Ritorna alla sua terra natale, in quella Puglia che accoglie Bisceglie (dove è nato e cresciuto) e più in generale in quel Sud, al giorno d’oggi sempre più bistrattato e sempre più agli onori della cronaca per fatti di cui certo non vantarsi. Ma Veneziani, invece, come si vede anche nel sottotitolo, fa “un viaggio civile e sentimentale”, racconta il Sud “come un mito vivente”.
Sta in queste e in altre parole la spiegazione del perché egli abbia scritto un libro che parla del Sud: si tratta di “un elogio dell’arretratezza”? O di un “un tardivo amore di coccodrillo per le origini tradite”? Ha considerato che “al Sud si legge poco” e che “difendere il Sud è una battaglia di retroguardia”? No, dice l’autore, “non è così o forse è così come dite voi, ma tutto quel che dite in blocco, senza escludere niente…”

Il viaggio, non solo letterario, parte dal punto estremo, Capo Leuca (chiunque non vi sia ancora stato è caldamente invitato a recarvisi, pena la perdita della vista di un posto veramente ameno, con annesso giro in Salento, per rimanerne estasiato, ndr), in un pomeriggio estivo, in cui “un solleone maestoso” e una canicola infernale non danno tregua né permettono di trovare refrigerio. E si snoda per mille strade e mille pensieri, con un ritmo incalzante e piacevole e un’atmosfera ricreata ad arte, che, ad un certo punto, sposta il lettore direttamente sul luogo del racconto. “Risalendo lungo la balconata pugliese”, Veneziani tratteggia la Puglia: “una specie di Padania del Sud, una congettura”, “un condominio di province, repubbliche o principati”. Ricorda così le tradizioni inventate nel corso del Novecento, come la devozione per Padre Pio a San Giovanni Rotondo, la Fiera del Levante a Bari, i festival di “pizzica e taranta” come quello di Melpignano. O le figure importanti, almeno tre: Peppino Di Vittorio, “capo storico della Cgil”, Araldo di Crollalanza, ministro dei Lavori pubblici durante il fascismo, “che fece moltissimo per il Sud arretrato e terremotato, e soprattutto per la sua Bari” e Padre Pio “che espresse l’anima antica del devoto Sud”. Oltre a Gaetano Salvemini, Aldo Moro, don Pasquale Uva. E come dimenticare Pinuccio Tatarella, “il Peròn di Cerignola”. Senza tralasciare la Sacra Corona Unita che “non ha attecchito del tutto in Puglia” e la Striscia di Andria, “organizzazione malavitosa del dopoguerra che saccheggiava i treni”. Veneziani si scaglia poi contro “Cafon Valley”, “un animato sobborgo dell’estate (…) fondato sulla vistosità e sul rumore”, l’emblema del cattivo gusto e della sguaiatezza, il mezzo più utile per far male alla Puglia e al Sud in genere (perché, girando il Sud, si incontrano tante Cafon Valley). Una menzione speciale per la cucina pugliese, che nasce da “ricchezza e povertà”.

Il viaggio continua in “Entroter
ronia, sprofondo Sud”, dove in una sola giornata si può assistere a tutti i mali del Sud. Come? Rimanendo bloccati in autostrada a causa del rovesciamento di un’autocisterna tra Caianello e Caserta. Il Sud isolato dal mondo, fuori da ogni via di comunicazione. E il problema delle autostrade al Sud, e dei collegamenti in generale, è questione annosa e decennale: tanto che – dice Veneziani – “Cristo si è fermato a Eboli per non imboccare la Salerno-Reggio Calabria”. Perché, se il Sud è “discretamente collegato con il Nord o con il centro”, invece “è disastrosamente scollegato da se stesso”. Vogliamo parlare, poi, del terremoto? Ormai, al Sud, il terremotato è un mestiere. Come ha dimostrato l'articolo di Stella sul Corsera di qualche giorno fa, c’è chi campa sul terremoto: non solo cittadini, ma politici e amministratori locali si spartiscono e, pertanto cercano di allargare il più possibile, la torta dei terremotati.
Veneziani viene poi a tracciare i
ritratti, antropologicamente pungenti, di Clemente Mastella e Antonio Di Pietro, “dioscuri del profondo Sud, quello dell’entroterra”, “i Romolo e Remo dell’Interno Sud, fratelli coltelli a volte con ruoli invertiti”.

Si scende poi in “Calabria Saudita”, dove, nonostante l’aspetto squallido ed aspro del paesaggio, in realtà si incontra “l’ospitalità radicale dei calabresi” e i “segni persistenti della matrice ellenica”. La Calabria è anche la terra che ha visto morire Gioacchino Murat, “l’unico re giacobino che la storia ricordi”, che aveva regnato a Napoli e aveva beneficiato e valorizzato Bari, sebbene trovò la morte a Pizzo Calabro nel corso di un’”esecuzione tormentata”.
Che rapporto ha il Sud con il denaro?, si chiede Veneziani. Al Sud, a giocare un ruolo ancora molto im
portante, è il contante, dal momento che “le carte di credito non hanno sfondato”. E poi non dimentichiamo il valore della provvista d’olio, di un terreno o di una casa di proprietà: è ancora importante il “rapporto fondato sul baratto, sul dono e la riconoscenza”.

Oltrepassando lo Stretto, si sbarca in Sicilia, “un cannolo puntato sul continente”. Veneziani è assolutamente convinto che, essendo la Sicilia “un mondo a sé, per natura e cultura, indole e storia”, è un bene per entrambi, Sicilia e continente, se gli stessi rimangono separati. Quindi parla di mafia, che fa affari col potere, “si piazza al crocevia tra ricchezza e povertà, speculando su ambedue”; ma qual è la sua matrice psicologica? “Il mammismo meridionale è la placenta della mafia”, per quella “vocazione meridionale e mediterranea a infrangere il codice paterno e a riconoscersi nel principio materno del clan”. Interessante il passo riguardante la violenza in quanto l’autore si chiede se effettivamente essa sia un tratto distintivo del Sud in genere. E risponde ricordando che in questo “imbarbarimento” ha pesato molto “la crescita della ricchezza senza la parallela crescita della civiltà”, “il dislivello tra la tecnica in espansione e la cultura in ritirata”, la “perdita della tradizione”.
Come poter sorvolare sul “paradigma meridionale, nazionale e forse mondiale del personale inutile e sovrabbondante, iperpagato e ipoimpegnato” che è la regione Sicilia? In questo contesto la raccomandazione “distorce il principio della responsabilità individuale” e il merito è alieno. Particolarmente simpatico il passo su Cenzino Benaccolta, colui che aveva mandato “al suo caro compagno di scuola Totò Cuffaro” un vassoio di cannoli per festeggiare la condanna a cinque anni.

Risalendo dalla Sicilia, si arriva a “Napule, caput mundezzi” per fare un viaggio nel “voluttuoso declino di una capitale svogliata”. Il cui degrado è iniziato dopo il 1980 con la conseguente “gestione infame”. Facendo apparire la città come la
capitale degli scippi, dei furti, dell’immondizia, del potere mal gestito, dell’inganno sempre e comunque. “Il tutto è bagnato nell’indolenza, nell’accidia e in un falso fatalismo ai danni del prossimo.
Due pagine sono dedicate a Roberto Saviano, “vittima annunciata e spettacolarizzata della camorra, da lui sfottuta in modo così plateale”. Viene lodata la sua opera e un po’ criticata la sua decisione di far sapere di voler lasciare l’Italia. Ciò che Veneziani non condivide in assoluto è stata la scelta di mandare Gomorra ad Hollywood a rappresentare l’Italia, riducendo l’immagine del nostro Paese a sola camorra, “un’immagine vera ma unilaterale e miserabile”.
Altrettanto caustico è il ritratto di Mario Merola, non tanto rivolto alla persona, quanto al mondo di valori che ha impersonato: ad un suo spettacolo teatrale, accanto al “patriottismo popolano”, con annessi folclore e sentimenti veri, si poteva fare “un censimento della malavita locale e dell’indice di consenso all’illegalità”. Triste è stato vedere le più alte cariche dello Stato ad “omaggiare Merola in piena bufera di malavita”.
Il capitolo si conclude nella speranza di un “camorrismo inverso”, cioè di quell’insieme di “reti di comparaggio solidale e clan buonavitosi”, che possano far cambiare l’immagine triste e criminosa c
he generalmente è attribuita a Napoli.

Come avete potuto apprezzare, il viaggio di Veneziani è un viaggio nelle viscere, nell'anima del Sud, un viaggio alla riscoperta del Sud più vero e genuino. Verrebbe quasi da dire, giunti al termine del libro, che tutto il Sud è paese, tali e tanti sono i tratti distintivi che segnano le peculiarità di una terra, che ha visto nascere la civiltà moderna ed è stata culla e vittima delle dominazioni di varie popolazioni. La quale tuttavia oggi soffre della cattiva immagine attribuitale, non certo casualmente: si parla di questione meridionale, termine che Veneziani stesso aborrisce perchè è diventato ormai un semplice velo, dietro il quale nascondere quel mix di accidia, indifferenza ed indolenza che tanto male hanno fatto e fanno tuttora al Sud.
Un libro, in definitiva, che non vuole nè idealizzare il Sud nè tanto meno non ricordare le amenità che da sempre ne hanno fatto una terra fertile sotto tutti i punti di vista.

sabato 25 aprile 2009

UN 25 APRILE SERENO

Credo di poter dire, senza temere smentite, che quest'anno la festività del 25 aprile è stata festeggiata in un clima tutto sommato sereno, venato solo qua e là da qualche dichiarazione polemica, come ho già ricordato nei giorni scorsi.

La scena mediatica è stata occupata dal presidente Berlusconi, che, ad Onna - uno dei centri abruzzesi più colpiti dal terremoto, dove 64 anni fa ci fu una strage di civili da parte della Wermacht in ritirata - ha voluto pronunciare il suo discorso. Nel quale ha ricordato che "la Resistenza è un valore fondante" dell'Italia. Importante l'invito, a distanza da più di 60 anni dalla liberazione e a vent'anni dalla caduta del Muro, a "costruire finalmente un sentimento nazionale unitario", facendolo "tutti insieme, quale che sia l'appartenenza politica". E' giunto perciò il tempo "perché la festa della liberazione possa diventare festa di libertà", senza più distinguo e polemiche, "festa di tutti gli italiani che amano la libertà e che vogliono restare liberi".
Mi sembra giusto sottolineare l'esortazione a "ricordare con rispetto tutti i caduti, anche quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata sacrificando la propria vita ad una causa già perduta", nell'ottica di poter fare del 25 aprile una festa condivisa da tutti, base su cui poter affermare i valori democratici e repubblicani.

Anche il segretario del Pd, Franceschini, e il leader dell'Udc, Casini, hanno festeggiato il 25 aprile in Abruzzo.

Conciliante la dichiarazione del leader Cgil, Epifani: "Non importa quando si arriva a condividerla, l'importante è arrivarci per sempre e per intero".

Il sindaco di Roma, Alemanno, non ha potuto partecipare, invece, alla manifestazione a Porta San Paolo, dopo la segnalazione della Questura della mobilitazione dei centri sociali contro la sua presenza; "se avessi potuto partecipare avrei testimoniato tutto questo e reso omaggio a tutti coloro che hanno scelto la strada dura della lotta. Volevo esserci per sgomberare il campo da equivoci".

Da Mignano Montelungo (CE), il capo dello Stato, Napolitano, ha invitato all'unità, affinchè rispetto e pietà siano patrimonio comune.

Contestazioni in piazza Duomo per il presidente della regione Lombardia, Formigoni: "la Resistenza non è stata opera di una parte sola e sbagliano quelli che hanno voluto mostrare una Resistenza figlia di una sola parte perché questo ha portato divisione".

venerdì 24 aprile 2009

IMMIGRAZIONE E SICUREZZA IN ITALIA

Immigrazione e sicurezza in Italia

Marzio Barbagli

Il Mulino Contemporanea

€ 15,00

Marzio Barbagli insegna Sociologia all'Università di Bologna e, dieci anni fa, è stato il primo ad occuparsi del tema, ritenuto politicamente scorretto, dei reati commessi dagli immigrati. Dopo qualche imbarazzo e critica, grazie al suo certosino lavoro di ricerca, ha saputo imporsi come una tra le voce più autorevoli in materia. Ed è così che, in un periodo di crescente preoccupazione sociale, egli ritorna sull'argomento, mostrando dati aggiornati e spiegando il perchè di alcune paure e il funzionamento delle due leggi più importanti in materia di immigrazione, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini.

Barbagli inizia il suo saggio proponendo, in breve, un'analisi del fenomeno immigratorio nell'arco dell'ultimo secolo. Gli anni '70 rappresentano un importante spartiacque: innanzitutto è da allora che in molti Paesi europei "vi è stato un continuo aumento della quota di reati commessi da stranieri"; a partire dal 1973, si è passati "da una immigrazione principalmente da domanda, causata da fattori di attrazione, (...) a una prevalentemente da offerta, provocata da fattori di spinta"; dal 1974, molti governi europei "hanno scoraggiato in vari modi i flussi migratori, riducendo le possibilità di entrata e rafforzando i sistemi di controllo esterno ed interno", provocando così un aumento dell'immigrazione irregolare e delle domande d'asilo politico; infine dal 1973 è cambiata "anche la situazione economica e sociale degli immigrati regolari con permesso di soggiorno", con un minor miglioramento delle condizioni di vita dopo l'abbandono del Paese d'origine rispetto ai tempi passati.

Per quanto riguarda i reati degli immigrati, è bene sottolineare come "negli ultimi decenni, la quota degli stranieri sul totale dei denunciati e dei condannati è continuamente cresciuta". Gli immigrati, nel "sistema di stratificazione sociale", si trovano ai gradini più bassi, non commettono cioè determinati tipi di reati, appannaggio di ceti più elevati; essi sono coinvolti in traffico di stupefacenti, contrabbando, traffico di stupefacenti, sfruttamento di minori e della prostituzione. Curiosamente "la crescita della quota degli stranieri sui condannati" si è verificata con valori più elevati nelle grandi città dell'Italia centro-settentrionale.

Un intero capitolo è dedicato alla definizione dei reati degli immigrati regolari e di quelli irregolari. Ciò che distingue i primi dai secondi è "un permesso di soggiorno legale concesso dal questore della provincia in cui si trovano". Si stima che gli immigrati irregolari, in assenza di numeri precisi, siano tra 300 mila e oltre 1 milione e 500 mila; vale poi la pena ricordare come, grazie a ben cinque provvedimenti di regolarizzazione, coloro che sono passati dalla condizione di irregolari a quella di regolari sono quasi 1 milione e 500 mila persone. Nel corso degli ultimi vent'anni, afferma Barbagli, "il numero dei reati commessi dagli stranieri è considerevolmente aumentato", aumento dovuto perlopiù ai reati commessi da irregolari ("dal 65 al 92% a seconda dei reati"). Questo importante aumento è da attribuire, secondo gli esperti, all'"inefficienza di sistemi di controlli interni" (vale a dire quelli sulla permanenza). Un importante ruolo è stato giocato dall'"economia informale", a causa di scarsi controlli da parte delle agenzie statali e delle infrequenti ispezioni sui luoghi di lavoro. Poi la legge Martelli e la "mancanza di collaborazione da parte dei paesi d'origine" hanno reso impossibile espellere gli stranieri privi di permesso di soggiorno. "Questa situazione ha avuto due diverse conseguenze": prima, "gli irregolari hanno goduto di un'impunità maggiore dei regolari"; seconda, si è creato un esercito di persone, le quali, non riuscendo a trovare un'occupazione, si sono dedicate "a tempo pieno alle attività illecite".

Ritengo il quarto capitolo uno dei più importanti e dirimenti del libro, in quanto, inquadrando le due principali leggi in materia di immigrazione, la Turco-Napolitano e la Bossi-Fini, ci aiuta ad avere un quadro più preciso e veritiero, in luogo di alcune false credenze create dagli spot elettorali. Come mostra il sociologo, si tratta di due leggi organiche e complementari. "Oltre a permettere la regolarizzazione di oltre un milione di persone, le leggi Turco-Napolitano e Bossi-Fini sono riuscite a rendere più efficienti i controlli esterni e quelli interni"; inoltre, "la quota di immigrati espulsi, sul totale dei rintracciati, è sempre rimasta più alta che nel quindicennio precedente". L'autore conclude sostenendo che le leggi hanno raggiunto risultati inferiori a quelli attesi, essendo riuscite solo ad arrestare la crescita del numero di reati commessi da immigrati. Il principale fallimento è legato all'incapacità di "ridurre sensibilmente i flussi migratori irregolari" per tre motivi: primo, i controlli interni sono insoddisfacenti; secondo, l'economia sommersa attira ancora troppi irregolari; terzo, non si è ancora riusciti "a realizzare in modo deciso e coerente una politica attiva degli ingressi".

Utili alla discussione, fino a qualche mese fa particolarmente calda, sono i dati forniti sui reati commessi dai rumeni rispetto ad immigrati di altre nazionalità. "Dai dati sugli stranieri denunciati per sette reati non si ricavano prove certe a favore dell'ipotesi che l'ingresso della Romania nell'Unione europea abbia provocato, nel 2007, un aumento del numero di reati commessi in Italia dagli immigrati provenienti da questo paese". Barbagli sostiene che l'Italia sia stata piuttosto investita da "un'ondata di panico morale", espressione che definisce quelle situazioni presenti quando, in una parte della popolazione, "si diffonde una specie di febbre, un'ansia ed un'agitazione improvvise, una forte paura, immotivata o quanto meno eccessiva, di fronte alla minaccia proveniente da gruppi di persone che agiscono in modo immorale ed inaccettabile e che si ritiene possano provocare grave danno alla società".

Dopo tanti dati e tante affermazioni, Barbagli si preoccupa di dare delle risposte e delle spiegazioni al fenomeno immigratorio. Lo fa attraverso la discussione di tre teorie, ciascuna delle quali può aiutare a capirne un aspetto.
La prima è quella del "conflitto di culture", in base alla quale ciascuna società ha "proprie norme di condotta, che indicano come devono comportarsi coloro che si trovano in determinate situazioni e che vengono trasmesse da una generazione all'altra"; ne deriva che "chi commette un reato, lo fa perchè resta fedele alle norme di condotta del suo gruppo", che ha ormai fatto sue.
La seconda è quella "della tensione e della privazione relativa", per cui "l'individuo è un animale morale", il quale durante la sua infanzia e la sua adolescenza apprende le regole della società in cui cresce ed è portato perciò a seguirle; se commette un reato è perchè "è spinto a farlo da un'intensa frustrazione provocata dallo squilibrio esistente fra la struttura culturale (...) e la struttura sociale". Ossia gli immigrati "fanno propria la meta culturale del paese in cui sono entrati (...) senza avere le opportunità per raggiungerla".
La terza, quella che Barbagli dice di essere la più utile, è quella del "controllo sociale". Essa afferma che l'uomo è "un essere debole (...) portato naturalmente più a violare che a rispettare le leggi". Perchè allora solo alcune persone commettono reati e la maggior parte non li commette? "Ciò avviene perchè queste (la maggior parte delle persone, ndr) sono frenate da vari tipi di controllo sociale", esterni (come le varie forme di sorveglianza) o interni (come i sentimenti di colpa e di vergogna, l'attaccamento psicologico ed emotivo provato per gli altri e il desiderio di non perdere la loro stima e il loro affetto). "Nella società d'arrivo, gli immigrati sono poco integrati e mancano di legami forti con altre persone significative" ("Quanto più una persona è legata ai genitori, ai parenti, agli insegnanti (...), tanto più difficile sarà che infranga le leggi").


giovedì 23 aprile 2009

BASTA SPECULAZIONI

Solo poche parole per commentare le prime polemiche sul 25 aprile. Puntualmente, ogni anno, con la precisione di un orologio svizzero, nei giorni antecedenti la festa di Liberazione si rincorrono le dichiarazioni, sempre polemiche, su partecipazioni e assenze alle manifestazioni.
E io mi chiedo sempre perchè e mi do sempre la stessa risposta. Le polemiche nascono fondamentalmente dal fatto che, nonostante i tanti anni passati, sulla Liberazione c'è ancora confusione: di questa festa c'è chi sente di avere la patente per appropriarsene e per dire chi invece non è degno di festeggiare. Manca ancora quella vera "pacificazione nazionale", manca ancora la vera condivisione di alcuni valori, mentre sono sempre vivi l'acredine e l'astio, la tendenza a buttare questa festa sul terreno della politica.
Un'ultima dimostrazione di questo tipo di comportamento è data dalla dichiarazione di Franceschini, proprio dalla parte di chi continua a chiedere condivisione del 25 aprile. Il segretario Pd ha dichiarato: "Mi fa piacere. Meglio tardi che mai. Berlusconi ha avuto altre 14 occasioni da quando e' sceso in campo"; una dichiarazione troppo arrogante e superba per poter rasserenare il clima, inutile nel contesto attuale.
Anche perchè quando qualche esponente del centrodestra si è fatto vedere in piazza per manifestare è stato subissato dai fischi: ci ricordiamo dell'attuale sindaco di Milano Letizia Moratti che, nel 2006, mentre accompagnava il padre in carrozzella in corteo in corso Vittorio Emanuele, ha abbandonato la piazza per via delle contestazioni?

Qui sotto vi riporto un intervento dell'ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, sul Corriere della Sera risalente al 25 aprile 2005: un intervento in cui, con parole sagge e pacate, si richiama alla condivisione del valore della Festa di Liberazione, senza spirito di parte.

Ogni comunità nazionale costruisce la propria identità attorno ad alcune date simbolo. Sono date che marcano punti di rottura nel fluire della storia e che, proprio per questo, sono vissute dalla coscienza collettiva come l' avvio di un nuovo percorso, fondato su un progetto e su un insieme di valori comuni. Consumata la rottura, il cammino degli eventi riprende. Riemergono, come è naturale, le diversità di opinioni ed i confronti tra ciò che è bene per la collettività e ciò che non lo è. Quelle date, invece, restano. Tornano anno dopo anno, con la loro silenziosa eloquenza, a ricordare le ragioni profonde che permettono di contrapporsi senza disgregarsi, di proseguire lungo la stessa strada anche quando le divisioni appaiono invalicabili. Il 25 aprile, di cui oggi celebriamo il sessantesimo anniversario, è una di queste date. Essa rappresenta un giorno di festa, un giorno di libertà. Rappresenta il segno di un' epoca nuova nella quale il popolo italiano si è ritrovato unito sulla strada per la democrazia e per la pace, dopo aver sofferto le umiliazioni e le offese della dittatura, della guerra, dell' occupazione. Quando sono stato eletto Presidente della Camera, nel mio discorso di insediamento ho voluto richiamare il valore fondante della Resistenza per la nostra identità nazionale. Non è stata una scelta casuale, né un omaggio meccanico e di circostanza. Era ed è mia profonda convinzione che il percorso che ha condotto alla Liberazione del nostro Paese costituisca un patrimonio comune di tutti gli italiani: un' acquisizione di valore che nessuno può pensare seriamente di mettere in discussione e che fa del 25 aprile, non diversamente dal 2 giugno, una data che unisce e non può dividere. Per questo guardo con particolare rammarico ad una della manifestazioni più evidenti dell' immaturità del nostro bipolarismo: penso a quella sorprendente, incomprensibile - ma purtroppo anche invincibile - tentazione di portare la Resistenza sul terreno dello scontro politico e delle logiche di parte. Si tratta di una tendenza che, negli ultimi anni, si è consolidata con il rafforzarsi della percezione prevalentemente oppositiva del nostro bipolarismo: un bipolarismo sempre «contro» e raramente «per», i cui protagonisti sono incapaci di riconoscere legittimazione politica ai propri avversari e si chiudono anzi nella spasmodica ricerca di argomenti per demonizzarne l' azione e la presenza. In questa folle corsa al «muro contro muro», non è stato risparmiato nemmeno il cammino che ha fondato la nascita della Repubblica, brandito troppo spesso dall' una e dall' altra parte come una clava, da utilizzare sul terreno del contrasto politico secondo le convenienze: ed è questo, a mio parere, uno dei fattori più preoccupanti del tempo presente della democrazia italiana. Sbaglia quella parte della Casa delle libertà che cerca di minimizzare la portata storica e politica della Resistenza; sbaglia nel guardare alle sue celebrazioni come ad una questione priva di interesse, che riguarda per definizione solo una parte del Paese; sbaglia quando tende ad eludere i giudizi che la storia ha già dato sul nostro recente passato, invocando la necessità di guardare avanti nel segno di un futuro che però rischia di essere fragile e velleitario, perché privo di solide radici nel passato. Ma, in forme uguali e contrarie, sbaglia anche una parte del centrosinistra. Non è infatti errore meno grave fare della Resistenza una vicenda che può essere realmente compresa e celebrata solo dalle forze progressiste, o che tali si autodefiniscono. E' ugualmente un errore rifiutarsi di leggere con serenità anche le pagine oscure che sono state scritte tra l' 8 settembre 1943 e la fine della guerra, in cui più tragico si è mostrato il volto della Liberazione come guerra di italiani contro italiani e che hanno visto cadere tanti uomini innocenti, dall' una e dall' altra parte, vittime della ferocia delle ideologie contrapposte. Per abbattere questi steccati, che rischiano di tenere l' Italia sospesa in una sorta di eterno presente, è necessario ed urgente compiere un' operazione di chiarezza e di verità. Mi rendo conto della grande difficoltà di esprimere giudizi storici su fenomeni tanto complessi, come la Lotta di liberazione e le interpretazioni che di essa sono state date negli anni con il mutare delle situazioni sociali, politiche ed istituzionali, interne ed internazionali. Tuttavia, credo che un passo avanti significativo possa venire da una constatazione. La Resistenza fu un fenomeno articolato, che ebbe molti protagonisti. Tali furono i partigiani, ma anche i militari delle Forze armate italiane che seppero dire no al nazifascismo. Protagonisti furono anche tanti uomini senza armi: sacerdoti, anziani e donne, che diedero un contributo silenzioso, ma non meno determinante, nell' opporsi alla barbarie dell' occupazione. Protagoniste furono le grandi famiglie del pensiero politico italiano, che seppero far prevalere - quando tutto attorno stava crollando - ciò che le univa rispetto a ciò che le divideva: fu così per la casa socialista, in cui forte era la motivazione ideale della lotta di classe; fu così per gli azionisti come per i liberali, pure lontani fra loro nell' analisi della crisi del Paese; fu così per i cattolici, sospinti dall' idea intransigente ed incrollabile del primato della dignità dell' uomo e dall' aspirazione di edificare su di essa una pace vera e duratura. Se tutto ciò è vero - e lo è senz' altro - è chiaro allora che nel perimetro della Lotta di liberazione oggi stanno dentro tutti gli italiani. Vi stanno nella loro peculiare ed inimitabile identità plurale, costruita sulla ricchezza e sulla varietà di idee, opinioni e culture che ne unisce da sempre i destini e che ha consentito loro di ritrovarsi insieme nel superare le prove più dure. E' questa la ragione per cui il 25 aprile è una data che appartiene a tutti ed a ciascuno di noi. E' questa la ragione per cui politica e società civile hanno il dovere di lasciarsi alle spalle conflitti ideologici e lacerazioni e di lavorare per diffondere, soprattutto presso i giovani, la vitalità del preziosissimo patrimonio di principi ed ideali che quella data rappresenta. Per quanto difficile questo impegno possa rivelarsi, vale la pena mettersi alla prova, perché la ricompensa ha un valore inestimabile: se riusciremo a fare della Liberazione un terreno su cui piantare la bandiera italiana, e non quelle di questa o di quella parte, potremo dire di avere finalmente e definitivamente maturato quella tavola di valori nel cui segno tutti possano riconoscersi senza «se» e senza «ma» e concorrere alla crescita ed al progresso del Paese.

martedì 21 aprile 2009

UN TESORO CHIAMATO DIALETTO


Molto spesso, trovandomi in giro, in mezzo a molta gente di tutte le età, presto grande attenzione al linguaggio, in tutte le sue forme. Soprattutto alla lingua dialettale, nella gran parte dei casi parlata da persone anziane. E così mi sono venute in mente alcune considerazioni.
Per Wikipedia, il dialetto, nell’accezione più usata del termine, è un “idioma con una sua caratterizzazione territoriale”: comunemente è la lingua del posto, tipicamente parlata dai nonni e dalle persone più avanti con gli anni. Che, spesso, a noi giovani suona strana, talvolta completamente straniera, talora poco educata o elegante (in base al vecchio credo per cui chi parlava il dialetto era persona di poca o nessuna istruzione). E, invece, con grande felicità, vedo che non dappertutto esso è considerato così dai giovani: anzi, per alcuni, è addirittura un vanto la sua conoscenza, un grande orgoglio saperlo parlare e potersi rivolgere così all’interno della compagnia.
Perché, a pensarci bene, quale lingua più del dialetto può esprimere lo stretto legame della gente al proprio territorio? Quale lingua meglio del dialetto può farsi veicolo di trasmissione di tradizioni, usanze, costumi, consuetudini di un nucleo territoriale alle generazioni successive in un momento durante il quale è fondamentale la conservazione della propria cultura d’origine? Questi pensieri mi sono ritornati spesso alla mente in quest’ultimo periodo e mi succede ogniqualvolta mio padre, in famiglia, si rivolge a me o ai miei fratelli in dialetto: è sempre un piacere sentire quella lingua, è qualcosa di assolutamente molto familiare, è un importante collante, è un modo, se si vuole, anche più informale e scherzoso per parlarsi.
Tuttavia, io devo confessarvi di non saper parlare neanche un po’ di dialetto, salvo alcune espressioni che, avendo sentito ripetere tante volte, ho fatto mie. E il problema deriva dal fatto che, pur essendo nato e vissuto al Nord, sono in realtà più meridionale, dal momento che i miei genitori e i miei nonni sono tutti nativi della Campania. In più in famiglia non c’è mai stata l’abitudine di parlare il dialetto, a parte mio padre, nato e cresciuto al Sud. A questo punto mi trovo in una situazione ibrida: perché riesco a capire perfettamente il dialetto meridionale e abbastanza bene i dialetti piemontese (essendo io residente in provincia di Alessandria) e pavese (sto compiendo gli studi universitari a Pavia), ma non sono per niente in grado di parlarli. E questo, chiaramente, mi dà dispiacere. Perché più ci penso e più noto quanto genuina sia la lingua dialettale: spesso mi capita di dover parlare con dei pazienti, alcuni dei quali si esprimono solo in dialetto, attraverso il quale riescono a far capire, per mezzo di alcune espressioni o parole intraducibili, il problema da cui sono afflitti con un’immediatezza e un’efficacia del tutto invidiabili.

Ed è per questo motivo che mi sono rallegrato moltissimo quando ho appreso di una splendida notizia giunta da Montaguto, un paesino della provincia di Avellino, a circa 700 metri di altezza, a pochi chilometri dal confine tra Campania e Puglia, un paesino di quasi 500 anime, per la gran parte anziani, uno di quei paesini in cui l’inverno è lungo e freddo e l’estate è calda e piena di vita. Ci sono legato perché lì sono nati i miei genitori e i miei nonni e lì mi reco ogni estate a trascorrere due settimane di vacanza, in un ambiente veramente rilassante, immerso nella tranquillità, circondato da una natura ancora poco contaminata. Nonostante i pochi abitanti, vanta da due anni un sito molto visitato, www.montaguto.com, curato da tre amici: Mikey, Drastiko e Maxim alias Mi.Dra.Max. Tre amici che si sono buttati un po’ per gioco in quest’avventura, guidati dall’amore per la terra dei loro padri, e che oggi raccolgono i frutti dell’impegno, con tanti encomi per aver fatto conoscere al mondo Montaguto e, soprattutto, con la soddisfazione di aver “risvegliato” il paese, dandogli nuova linfa. Tra le tante iniziative che potete apprezzare visitando direttamente il sito, l’ultima è quella più entusiasmante e quella che più sta ad indicare l’attaccamento al paese e alla terra: si tratta di un telegiornale, completamente in dialetto, con sottotitoli in italiano. La prima edizione risale a qualche settimana fa, la seconda è in fase di ultimazione e sarà on line a breve. Tali sono state la risonanza dell’evento e, soprattutto, la particolarità dell’idea partorita dalla Mi.Dra.Max che sono valse a montaguto.com l’interessamento di Biagio Agnes, direttore della Scuola di Giornalismo di Fisciano, in provincia di Salerno, il quale ha voluto saperne di più, invitando la redazione ad un incontro. Direi: una bella soddisfazione, un bel riconoscimento, una sorta di marchio Doc apposto da una grande autorità del giornalismo.

Beh, che dire? Il dialetto, evidentemente, ha ancora una sua importanza e una sua dignità, che meritano di essere difese e tramandate. Perché, così facendo, portiamo avanti tutto un carico di cultura, implicita nella lingua dialettale, che ha inevitabilmente forgiato le piccole comunità e, nel complesso, l’Italia intera.

Ecco qui la prima edizione del telegiornale.



La cartina sottostante l'ho fotografata durante la mostra "Alla corte di Federico II. Le ceramiche sveve di Lucera a Castel del Monte", tenutasi a Castel del Monte (Andria) tra il 30 maggio e il 30 dicembre 2003. Alcuni pannelli, utili alla comprensione del percorso della mostra, sono stati lasciati e così mi è stato possibile vederli. L'immagine raffigura la Capitanata, terra prediletta da Federico II, con la fertile pianura del Tavoliere, l'aspra montagna garganica, le tenui alture del Sub-Appenino.


Questa cartina, invece, l'ho ritrovata alla "Galleria delle carte geografiche" dei Musei Vaticani; è stata dipinta tra il 1580 e il 1583 sul modello dei cartoni di padre Ignazio Danti. Montaguto era indicato come M. Acuti.



domenica 19 aprile 2009

I TIMORI SULLA RAI

Colgo al balzo i timori sollevati dall'amico Andrea su Diego Garcia Blog riguardo i prossimi avvicendamenti in Rai, in base alla vecchia legge non scritta della lottizzazione o spoil system che dir si voglia. E non vi nascondo i miei, alcuni più seri, altri meno.

Alcuni nomi possono far nutrire dubbi: per esempio quello di Susanna Petruni alla direzione di RaiDue; sicuramente, dopo l'ultimo show riguardo gli ascolti esorbitanti del Tg1 sui fatti del terremoto abruzzese, non pensavo avesse guadagnato molti punti, nè come giornalista - prima di tutto - nè come possibile candidata a ruoli di direzione. Eppure...
L'altro nome che mi lascia perplesso è quello di Maurizio Belpietro: sinceramente non l'ho mai apprezzato come giornalista, fin da quando era al Giornale perchè troppo allineato, troppo legato al suo editore. E quindi non lo vedo tra i più adatti al ruolo di direzione del Tg2 (anche se RaiDue è notoriamente appannaggio del centrodestra).
Ho notato, però, che la polemica sui nomi si è spostata più sulla loro appartenenza politica che sulle loro capacità. Nomi come quelli di Mazza, Orfeo o Minzolini sono nomi di giornalisti che, nel corso di questi anni, hanno dimostrato abilità e competenza nel loro campo. Così come, per dirne uno di quelli recentemente nominati dal centrosinistra, è stato per Riotta: giornalista di indiscusse e riconosciute capacità professionali.

Il discorso, a mio avviso, deve essere indirizzato su un altro campo: basta con la lottizzazione della Rai, basta con i continui cambi di poltrone e giornalisti al cambio di governo, basta con l'alternanza di giornalisti posizionati in posti chiave per mere esigenze politiche spartitorie. E' ora di crescere, è ora di girare pagina, sempre se la Rai intende raggiungere obiettivi importanti, di prestigio.
La Rai rappresenta il servizio pubblico, quello fruito da tutti i cittadini (dietro pagamento di un lauto canone, peraltro al rialzo ogni anno), quello che storicamente ha rappresentato l'orgoglio della nostra televisione, avendo contribuito alla diffusione della cultura - in tutti i suoi numerosi aspetti - e che ora invece è piuttosto mal considerato. E' ora di sostituire il servizio pubblico attuale, dominato da reality e talk show, politici e non, di livelli alquanto bassi, per non dire infimi, che relega gli approfondimenti culturali in orari improponibili, oltre che dedicare loro una piccolissima fetta del palinsesto. Sempre in nome del guadagno, della rincorsa a Mediaset - che, in quanto privato, persegue ben altri obiettivi. Per raggiungere questa meta, agognata da tempo, è indispensabile che la politica esca da viale Mazzini, lasciando il campo libero solo a tecnici (ne abbiamo alcuni molto capaci, ma poco presi in considerazione), i quali saprebbero certamente come far riacquistare alla Rai il ruolo di televisione pubblica che le è proprio.

Chissà quando vedremo la privatizzazione della Rai (che sarebbe una possibile alternativa), puntualmente indicata come soluzione, prospettata come unica strada per uscire dalla situazione attuale, talora promessa in campagna elettorale.

sabato 18 aprile 2009

LA FINTA SATIRA

E' ormai pubblica la decisione della Rai di sospendere il vignettista Vauro dalla trasmissione di Santoro "Anno zero". Il motivo è relativo ad una vignetta giudicata "gravemente lesiva del sentimento di pietà dei defunti". La quale evidentemente ha contravvenuto al diritto di satira.
Già, perchè credo sia particolarmente difficile poter definire quella di Vauro sui morti del sisma abruzzese "satira", sempre se con quel termine si intende qualsiasi "scritto, spettacolo o anche comportamento, discorso e sim., che mette in ridicolo comportamenti o concezioni altrui" (Dizionario De Mauro).
Spesso si confonde il diritto alla libera espressione col diritto a insultare o umiliare gli obiettivi della satira; e, nel momento in cui questo viene fatto notare, subito si grida al regime, si corre a difendere a spada tratta la libertà di espressione, ci si lancia in campagne di "censura della censura". E, soprattutto, i presunti vignettisti satirici vengono innalzati a vittime del regime, vittime di un grande capo che costringe al pensiero unico.
Niente di tutto questo: però val la pena ricordarsi che la libertà di ciascuno finisce laddove inizia quella degli altri, la libertà di ciascuno sta nel riconoscere dei limiti entro i quali muoversi per evitare di scadere in insulti o ingiurie.

Alla vista della vignetta di Vauro, sono rimasto personalmente molto disgustato (questo mi ha impedito di pubblicarla; chi volesse vederla, può cliccare qui): un mix tra insensibilità e gusto per il kitsch ha prodotto una vignetta pessima, capace solo di colpire ulteriormente le vittime del sisma e accrescere il dolore delle loro famiglie, che ancora le piangono.

lunedì 13 aprile 2009

UN CLIMA PIACEVOLMENTE SURREALE

Talvolta, vista la vita frenetica che conduciamo, non riusciamo a gustarci ciò che abbiamo sotto gli occhi, facciamo fatica ad apprezzare il gusto profondo delle cose. E' quello che a me, oggi, nel giorno di Pasquetta, è capitato a Pavia. Sì, oggi ero a Pavia: "gita fuori porta" forzata, per rientrare nel luogo di studio causa esami a breve. Ma "gita fuori porta" per nulla sgradevole, anzi, sono stato felice di averla fatta (studio a parte, ovviamente).

Arrivo a Pavia intorno alle 16. Già si comincia col circolare senza code ai semafori, senza macchine o motorini che sfrecciano per le strade, solo molte biciclette e alcuni pedoni cui prestare attenzione. E questo non è poco!
Per raggiungere casa, costeggio il lungo Ticino, affollato da pedoni e da molte macchine alla ricerca di un parcheggio. Poi arrivo al Ponte Coperto: intravedo, sulla sinistra, Strada Nuova che pullula di gente, tante mamme che guidano passeggini, tanti ciclisti, un po' di turisti italiani e stranieri (loro sì, per una vera gita fuori porta). Quindi giro lo sguardo a destra e...il Ponte Coperto e il lungo Ticino sono gremiti: giovani, adulti, anziani, bambini, chi a piedi e chi in bici, tutti in giro per godersi il sole primaverile e una temperatura assolutamente gradevole, la città tranquilla, la vista del Ticino dal Ponte Coperto. Che bel colpo d'occhio e che clima festoso!
Quindi proseguo verso il centro, risalendo una delle tante vie che incrociano corso Garibaldi e sbucano in corso Mazzini; parcheggio l'auto e passeggio per arrivare a casa. C'era poca gente in strada: qualche coppia e un piccolo gruppo di ragazzi che mangiavano un gelato.

Vi sembrerà paradossale, ma per me non lo è: a me fa strano vedere la città calma e silenziosa; mentre oggi me la sono proprio goduta, ero felice di quella tranquillità, di poter camminare con la mente libera, non infastidita dai rumori dei motori o dei clacson. Ho apprezzato quella brezza tiepida, i giochi di luce del sole, la vista del Duomo che svetta, altissimo, sopra i tetti rossi.
Tutto questo mi ha indotto a pensare che più si hanno le cose a portata di mano e più si fa fatica ad apprezzarle, forse a causa della routine quotidiana e della frenesia cui siamo abituati. Spesso, con calma e tranquillità, invece, possiamo ammirare il tesoro che tutti i giorni ignoriamo, gustarci il tempo di festa e la città come non la vediamo mai.


sabato 11 aprile 2009

QUANDO LA DISINFORMAZIONE GIOCA CON LA TRAGEDIA

Chi ha guardato Anno Zero giovedì sera e ha un minimo di cuore, immagino sia rimasto basito come me. La premiata ditta Santoro&Travaglio è riuscita a fare disinformazione anche su un dramma come quello del terremoto. Sono veramente senza parole!
Santoro (colui che ritiene di essere il detentore dell'informazione e che deve lottare per farla uscire allo scoperto) è riuscito ad intervistare, con l'aiuto dei suoi inviati, "una signora che si lamentava di un ritardo di un paio d’ore dei soccorsi, un signore che diceva di aver freddo, un altro ancora che cercava riparo in tende non ancora montate, una studentessa che preoccupata aveva lasciato l’Abruzzo per tempo, un medico che denunciava la mancanza di bottigliette d’acqua nel suo reparto". E' facile intuire che se uno sente queste dichiarazioni pensi che la macchina organizzativa dei soccorsi sia stata fallimentare, abbia impiegato troppo tempo ad organizzarsi e ad arrivare sul luogo del terremoto. E che, quindi, tanto per cambiare, la colpa sia del Governo, incapace di gestire le emergenze.
Ma tutti noi sappiamo - perchè giornali e televisione lo hanno documentato - che fin dall'inizio il Governo si è speso in prima persona per coordinare gli aiuti, grazie alla Protezione civile che anche stavolta è stata impeccabile.

Penso che dinanzi alla tragedia, se non si ha null'altro da aggiungere, sia meglio tacere - anche per rispetto delle vittime - piuttosto che blaterare fandonie. E' proprio vero che non c'è mai fine al peggio: e Santoro è riuscito a dimostrarlo.

venerdì 10 aprile 2009

LA GIORNATA DEL RICORDO


10 aprile 2009: una di quelle date che, purtroppo, rimarrà scolpita nelle nostre menti per i prossimi anni; una data triste, che ricorderemo con tanta tristezza e tanto dolore.


Stamani alle 11 sono stati celebrati i funerali delle vittime del terremoto (al momento, alle 19, le vittime sono 289) nel cortile della caserma della Guardia di Finanza di Coppito. Migliaia di persone hanno partecipato alle esequie, alla presenza delle più alte cariche dello Stato e dei principali leader politici. Toccante è stato l'arrivo del Presidente del Consiglio, apparso fortemente commosso, sedutosi poi tra i parenti, con smorfie di dolore sul viso. Una cerimonia cui mai avremmo voluto assistere: straziante la vista delle bare bianche, di povere vite strappate alla vita prematuramente.


A latere vi segnalo il reportage di Attilio Bolzoni e Carlo Bonini di Repubblica: il cemento delle case riempito di sabbia di mare, piena di cloruro di sodio (cioè sale), che ha consumato via via le strutture di ferro delle fondamenta. A tale riguardo "Alfredo Rossini, procuratore generale dell'Aquila ha deciso di aprire un'inchiesta".


giovedì 9 aprile 2009

UNA TRAGEDIA IN EVOLUZIONE


Stamani, appena apprese le ultime notizie provenienti dall'Abruzzo, mi si è gelato un'altra volta il sangue: il conto delle vittime è arrivato a 278 alle 8,30 e sono stati recuperati i corpi degli altri due giovani che figuravano tra i dispersi nel crollo della Casa dello studente all'Aquila, un ragazzo e una ragazza, gli ultimi che mancavano all'appello.


Come se non bastasse, questa notte la terra ha tremato ancora: "tre le scosse più forti, avvertite anche, oltre che in tutto l'Abruzzo, in gran parte del centro Italia, da Roma a Napoli. Alle 0,55 la prima, di magnitudo 4.3; alle 2,52 quella più forte, di 5.2; alle 5.14 la terza, di magnitudo 4.6" (da Repubblica.it). Scosse quasi paragonabili alla prima, quella che ha seminato panico e distruzione domenica notte!

Ieri sera, guardando il reportage di "Porta a Porta", mi sono venuti i brividi: grazie alle riprese in volo, si potevano vedere dall'alto i Comuni colpiti dal sisma e quello che ne rimane: praticamente poco, o nulla, quasi completamente distrutti gli edifici, quelli ancora in piedi con numerose crepe. Sembrava, come è stato già più volte detto, di sorvolare paesi colpiti da un bombardamento, tanta era la desolazione. Ma qui non c'è stata nessuna guerra, soltanto un terribile cataclisma, capace comunque di mietere morti e distruzione.


Capisco bene che non è il momento delle polemiche, come ho già ricordato, ma una considerazione mi viene ora spontanea. Ritengo molto strano che in un Paese come l'Italia, nel 2009, in una zona notoriamente a rischio sismico, si possa assistere a tale immane tragedia: tantissimi morti e paesi completamente rasi al suolo. Perchè, come è già stato ricordato, la scossa è stata sì forte, ma in Giappone o in California essa non avrebbe provocato ciò che è successo in Abruzzo. Perchè evidentemente in quei Paesi altra è la concezione delle costruzioni. E vorrei così rifarmi all'appello di Bersani a "Ballarò": dobbiamo assolutamente recuperare il "civismo", quell'insieme di importantissime regole assolutamente necessarie per il vivere civile; c'è necessità di una maggiore tensione alla legalità, al rispetto del corredo di leggi imposte. E, nel caso specifico, è quindi opportuno che vengano seguite regole stringenti nella costruzione di tutti gli edifici, in grado di resistere a scosse di terremoto di magnitudo medie, evitando tante vittime e tanta devastazione.


Un'ultima considerazione riguarda la politica. Innanzitutto un grande merito al Presidente del Consiglio che, fin da lunedì (annullando un viaggio di lavoro a Mosca), si è recato quotidianamente sui luoghi della tragedia per seguire e coordinare i lavori assieme a Guido Bertolaso, capo della Protezione civile. Grandissimo merito anche a Pierferdinando Casini, il quale, con grandissima lealtà e sensibilità istituzionale, ha detto che "noi carta bianca al governo abbiamo detto che la davamo e la diamo. In un momento come questo fare le pulci al governo è una inutile polemica del tutto impropria. Il governo faccia le cose giuste: noi daremo una mano a vigilare che effettivamente le facciano". Anche il Pd, in realtà, ha dato la sua disponibilità al Governo, sebbene negli ultimi giorni si sia lasciato andare a qualche sterile polemica, come quella riguardo l'accettazione dei finanziamenti esteri. Ritengo che in questo momento nessuno più del Governo abbia il polso della situazione per coordinare al meglio le varie operazioni e pertanto qualsiasi polemica risulti di poco aiuto, oltre che inopportuna. Infine, inviterei tutti i vari politici, comprese le alte cariche dello Stato, a limitare le visite in Abruzzo: credo sia un gesto di sobrietà e contemporaneamente di vicinanza e solidarietà quello di tenere un basso profilo, dando comunque la propria massima disponibilità per qualsiasi evenienza.

martedì 7 aprile 2009

IL TERREMOTO IN ABRUZZO


Sommo è il dispiacere per le conseguenze del terribile terremoto in Abruzzo. Qualsiasi immagine che passi in televisione o su Internet per documentare i danni è una pugnalata al cuore, uno strazio grandissimo; tanto da rimanere senza parole e tacere attoniti.

Il primo e più importante pensiero va ai bambini morti sotto le macerie, innocenti vittime di un cataclisma di enormi dimensioni, incapaci di mettersi in salvo e prede senza scampo dei calcinacci crollati sulle loro teste.


Un altro pensiero, anche questo triste, è ai ragazzi della Casa dello Studente: spezzano il cuore le riprese di quello che rimane di quell'edificio, che si è accovacciato su se stesso, mietendo vittime.

Non è il momento delle polemiche, è vero: ora bisogna rimboccarsi le maniche e aiutarsi. Però non si può non prestare attenzione a quella sollecitazione del sismologo Giuliani, il quale aveva invitato a non sottovalutare lo sciame sismico presente da più di un mese in Abruzzo.


Tuttavia, concludo queste mie considerazioni rallegrandomi del clima di solidarietà e generosità, subito scaturite dopo aver appreso del dramma dei terremotati: tutta Italia, senza divisione alcuna, si è impegnata per prestare aiuto e soccorsi agli abruzzesi. E questo perchè tutti abbiamo immaginato che una tragedia simile poteva succedere a noi e la stiamo condividendo, sempre col fiato sospeso, insieme a loro: soffrendo quando si viene a conoscenza di un altro morto, avendo paura quando una nuova scossa torna a far muovere tutto, rallegrandoci quando i soccorritori ritrovano un corpo vivo sotto le macerie.

sabato 4 aprile 2009

DUE PAROLE A PROPOSITO DI FECONDAZIONE ASSISTITA

Dinanzi alla sentenza della Corte Costituzionale sulla legge 40, sento di dover fare due riflessioni, partendo dal far presente che ho votato "sì" al referendum di qualche anno fa.

Ho sempre ritenuto che si trattasse di una legge buona e per questo mi sono battuto perchè il referendum portasse i frutti desiderati. Invece quel referendum ha visto un grande fallimento: non solo per il pesante indirizzo della Chiesa, ma anche perchè la gente non si è appassionata molto al tema, non l'ha fatto suo. E ha deciso di non esprimersi.

Colgo con contentezza la notizia della sentenza che boccia, tra le altre, la norma che limita a tre gli embrioni impiantabili e la parte in cui non si prevede che il trasferimento debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna.

Disapprovo, invece, gli interventi dei presidenti delle due Camere. Il presidente Fini che parla di una sentenza che «rende giustizia alle donne italiane, specie in relazione alla legislazione di tanti Paesi europei», ricordando la «laicità delle nostre istituzioni». Mentre il presidente Schifani la ritiene «una buona legge», sottolineando che «quando un provvedimento affronta tanti passaggi parlamentari, un dibattito lungo con voti segreti, nei quali i parlamentari votano secondo coscienza e non sulla base di dogmi, è una buona legge».

Data la difficoltà di giudizio su temi così sensibili, ritengo opportuno che le più alte cariche dello Stato, garanti del normale svolgimento del lavoro del Parlamento, si astengano da commenti a favore o sfavore di un provvedimento legislativo, pena un influenzamento non solo degli organi che presiedono, ma anche dell'opinione pubblica.

venerdì 3 aprile 2009

MARCELLO PERA ALL'UNIVERSITA' DI PAVIA

Giovedì 2 aprile 2009, nella splendida cornice del Salone Teresiano della Biblioteca Universitaria di Pavia, ho seguito la presentazione del libro "Perchè dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica" di Marcello Pera, edito da Mondadori nel 2008. Sono intervenuti nel corso della presentazione anche Luigi Zanzi e Luigi Vittorio Majocchi, entrambi docenti presso l'Università degli Studi di Pavia.


Certamente tutti ricorderanno Marcello Pera nelle vesti di presidente del Senato della Repubblica tra il 2001 e il 2006. Ma egli è prima di tutto un grande studioso di filosofia della scienza, sui cui temi ha prodotto numerosi saggi. Dopo il 2000, ha dedicato diversi articoli e saggi al rapporto fra la cultura storica europea e il cattolicesimo. Sicuramente degni di nota sono "Senza radici", scritto assieme all'allora cardinale Ratzinger, e "Perchè dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica".

L'esordio della presentazione è incentrato sul titolo, di cui Pera tiene moltissimo a precisare il senso: innanzitutto "non è un libro autobiografico", che vuole parlare del rapporto che l'autore ha con la religione; nè è un libro "apologetico del Cristianesimo". Semplicemente è un libro di "filosofia politica, morale e dell'attualità". Scritto "aprendo la finestra": cioè non basandosi su luoghi comuni oppure sentito-dire oppure critiche di tesi portate da altri filosofi; ma ascoltando effettivamente ciò che la gente dice, percepisce, lascia intendere.
E cosa si coglie? Una profonda "crisi di carattere morale e spirituale, di identità", una grandissima difficoltà a definire chi siamo noi in Italia e in Europa. Spesso, soprattutto negli ultimi decenni, non ci siamo posti questa domanda a causa della difficoltà della risposta. Oppure siamo stati messi dinanzi all'evidenza in modo drammatico: basti pensare al terrorismo islamico, ai problemi di integrazione con gli stranieri, alle questioni etiche al vaglio in Parlamento.
Come mai si è giunti fin qui? - si chiede Marcello Pera. La risposta è abbastanza semplice. C'è stata una profonda crisi del liberalismo e della democrazia, dottrine da sempre basate su solidi fondamenti. E pertanto, venendo a mancare solide basi, si è passati "dall'universalismo al relativismo", ossia quella posizione filosofica che nega l'esistenza di verità o mette criticamente in discussione la possibilità di giungere a una loro definizione assoluta e definitiva.
E l'esempio di questa crisi è, secondo Pera, ben rappresentato dalla "parabola dell'Europa". Tutto è iniziato con il disegno post-bellico dei tre padri fondatori Adenauer, Schumann e De Gasperi di "costruire un'identità politica, un'unione politica di Stati intorno all'identità cristiana". Mentre questo non è stato. Si è proceduto per trattati tra Stati autonomi sovrani, lasciando intatte le carte costituzionali dei singoli membri. Quando, però, si è cercato di passare dall'"aggregazione di Stati", come era quella configurata dai trattati, al "sovrastato o sovranazione europei" attraverso la Costituzione europea, il progetto è naufragato e si è tornati indietro ai trattati. Chiaramente, le ripercussioni di una scelta del genere sono evidenti a tutti: la forza, in qualsiasi ambito, viene attribuita ad un solo soggetto, non ad un insieme di soggetti, ciascuno dei quali parla con la propria voce. Veniamo spesso rimproverati così: "l'Europa non parla con una voce sola": semplicemente perchè l'Europa non è un soggetto unitario politico.
Pera si sofferma ampiamente sul principale motivo di fallimento della Costituzione europea. Spiega come "non si trattava di menzionare il Dio cristiano". La proposta era quella di inserire un "preambolo, unica occasione tra tutte le Costituzioni europee", nel quale illustrare perchè gli Stati si univano e mettevano a punto gli articoli della Costituzione. Lo scontro aspro è stato sull'inserimento, nel preambolo, del richiamo alle radici cristiane: dai sostenitori era ritenuto opportuno e dovuto, dato che "la storia europea è stata tenuta a battesimo da Pietro e Paolo", dovunque ci giriamo c'è un segno cristiano come nell'arte, nella cultura, nella musica: insomma, pur senza rendercene conto, il substrato della nostra cultura è cristiano. I detrattori, invece, avevano chiesto di inserire qualsiasi altro richiamo: all'Umanesimo, all'Illuminismo, al socialismo, ecc.
Un ruolo importante in questa diatriba è stato giocato dal relativismo, secondo il senatore Pera. Non è stato possibile inserire il richiamo alle radici cristiane per evitare di "urtare i molti immigrati islamici" oppure per non rendere difficile l'ingresso della Turchia in Europa". Il relativismo si è tradotto, in politica, in "multiculturalismo": un crogiolo di culture, tutte aggregate tra loro, ma nessuna superiore alle altre, nessuna con un peso maggiore. Tuttavia gli effetti nefasti del multiculturalismo sono sotto gli occhi di tutti: aver voluto concedere agli immigrati gli stessi diritti degli Europei e il mantenimento delle loro culture ha portato a inevitabili scontri, come ricordiamo tutti in Francia, Inghilterra e Olanda, Paesi che, pure prima di altri, hanno dato libero corso al multiculturalismo.
L'ultimo aspetto toccato dall'autore riguarda l'etica pubblica: egli fa notare come la rivoluzione liberale, da Locke a Kant per arrivare alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, ha proclamato l'esistenza di alcuni diritti fondamentali inviolabili. I quali, però, sono stati vittime - anch'essi - dell'ondata relativistica e pertanto messi in discussione perchè (e qui ritorna la tesi precedente) si è avuto una "crisi dei fondamenti".

In fin dei conti, dice Pera, "se ti dici cristiano recuperi un'identità" che potrà essere molto utile in futuro e "metti un freno alla deriva dell'etica pubblica". Si prende, quindi, coscieza di chi siamo, dove viviamo e con chi ci confrontiamo in maniera più forte e convinta, arma importantissima nel mondo globale e multiculturale in cui ci troviamo a vivere ogni giorno.
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