venerdì 29 gennaio 2010

IL VIZIETTO DEL DOPING

E Mutu ci ricasca. Niente da fare, non ha imparato la lezione, si è fatto beccare di nuovo. Positivo alla sibutramina, farmaco nato come antidepressivo e poi usato per curare l'obesità da quando si sono osservati effetti anoressizzanti (è in grado di ridurre il senso di fame). Importante sottolineare come la vicenda legata al commercio di sibutramina in Italia è stata travagliata: ritirata dal commercio nel 2002, ne fu riammessa la vendita l'anno successivo solo su prescrizione di pochi specialisti. E' di alcuni giorni fa la notizia che l'Aifa l'ha nuovamente ritirata sulla base di una indicazione dell'Emea che ha riscontrato un rapporto rischio-beneficio sfavorevole.
Ma perchè è stato incluso nell'elenco delle sostanze proibite dalla Wada, l'Agenzia mondiale antidoping? Lo spiega il professor Dario D'Ottavio, esperto di doping e membro della CVD, la commissione di vigilanza sulla legge antidoping, uno di coloro che hanno spinto perchè il farmaco fosse inserito tra le sostanze dopanti.
Stimolante dei neurotrasmettitori, cioè impedisce la cosiddetta ricaptazione di adrenalina, noradrenalina, serotonina e dopamina, stimolanti neurotrasmettitori, appunto, che grazie a quella sostanza rimangono di più nel circolo sanguigno espletando significativi effetti stimolanti. Il risultato è che c'è una maggiore efficienza fisica e la prestazione sportiva migliora. Di qui il divieto. Un prodotto molto simile all'ormai famigerato Lipopill (fenteramina) che costò la squalifica a Peruzzi e Carnevale nel 1990. E, per i suoi effetti euforizzanti è talvolta usato come succedaneo alla cocaina. Gli effetti dimagranti della sibutramina infatti sono minimi, dunque ciò che viene ricercato è principalmente l'effetto stimolante sulla prestazione.
Quasi patetica o simpatica - se veramente stanno così le cose - la spiegazione della madre di Mutu.
Intervistata dalla rete Telesport, Rodica Mutu, madre del calciatore, rivela di essere quasi certamente la responsabile della positività del figlio. La donna afferma di aver dimenticato a casa dell'attaccante le sue pillole, assicurando che il ragazzo non assume pasticche dimagranti e che probabilmente le ha prese per errore leggendo che si trattava di un semplice prodotto naturale.

Ma vogliamo ricordare qualche altro nome tra quelli che col doping ci sono cascati più di una volta? Oltre al Pibe de Oro Maradona che è il caso che ha fatto più scalpore, forse il primo grosso caso di doping, possiamo citare Jonathan Bachini, cresciuto nelle giovanili dell'Alessandria. Al controllo antidoping del 22 settembre 2004 alla fine della partita con la Lazio, nel primo campione sottoposto ad analisi, è stata rintracciata la presenza di metaboliti di cocaina. Bachini, nell’attesa delle controanalisi, viene squalificato per nove mesi e licenziato dai lombardi, squalifica poi aumentata ad un anno dalla CAF. Nell'estate 2005 lo ingaggia il Siena ma viene trovato nuovamente positivo alla cocaina nella gara del 4 dicembre 2005 contro la Lazio e il Siena rescinde il contratto. Il 30 marzo 2006 viene squalificato a vita, quindi radiato.
Un altro nome venuto alle cronache è quello di Francesco Flachi, trovato nuovamente positivo ad un metabolita della cocaina, la benzoilecgonina, il 19 dicembre 2009. Il giocatore aveva già scontato una squalifica di 2 anni dal febbraio 2007 al febbraio 2009 per positività alla stessa sostanza riscontrata al test del 28 gennaio 2007 quando militava alla Sampdoria.

Si fatica a capire il perchè di questi comportamenti, che pure stanno diventando frequenti; forse i soldi e la notorietà non sono tutto, ma si può anche decidere di uscire dal sistema a testa alta, salutando e ringraziando tutti, senza essere accompagnati dall'ombra di un reato.

martedì 26 gennaio 2010

FIBRILLAZIONI DI INIZIO SETTIMANA

Inizio di settimana al fulmicotone per la politica e soprattutto per il Partito democratico, che si trova alle prese con due questioni particolarmente scottanti. La prima riguarda la Puglia, dove, alle elezioni primarie, l'attuale governatore Vendola ha sopraffatto il candidato del Pd Boccia, bissando il successo ottenuto già cinque anni fa. La seconda si svolge più a nord, nella rossa Bologna, dove l'ex sindaco Delbono ha rassegnato le dimissioni in seguito al cosiddetto Cinzia-gate (scoppiato in seguito alle rivelazioni dell'ex fidanzata nonchè ex segretaria Cinzia Cracchi), da cui sono scaturite le accuse di peculato, abuso d'ufficio e truffa aggravata. Due patate bollenti, da gestire in un momento non facile, come quello attuale in cui si devono decidere ancora alcune pedine per le imminenti elezioni regionali. Due patate bollenti, che, tuttavia, stanno a testimoniare uno stato di salute precario, quello del Pd, che dura da qualche mese, nonostante l'avvento del nuovo segretario Bersani.
Innanzitutto, la questione bolognese segnala - se ce ne fosse ancora bisogno - che anche la sinistra deve riprendere a volare basso, abbandonando quella superiorità morale a lungo rivendicata nei confronti degli avversari, andata squagliandosi, come testimoniano le cronache, nel corso degli anni. E' inutile restare aggrappati al mito delle due Italie, una buona - quella di sinistra - e una esecrabile - quella di destra: esiste una e una sola Italia, in cui i fenomeni di malcostume politico sono, purtroppo, un fenomeno bipartisan. Anche se, come ha rilevato nell'editoriale odierno Galli della Loggia sul Corriere riferendosi alle dimissioni di Delbono, la sinistra "ha mostrato una sensibilità istituzionale e un'attenzione al giudizio dell'opinione pubblica che la destra, invece, quasi mai mostra."
In secondo luogo, la questione pugliese: la clamorosa sconfitta di Boccia, sonora rispetto a quella di un lustro fa, deve interrogare - e anche seriamente - i dirigenti del Pd. Boccia, come noto, è stato ampiamente sponsorizzato dall'ex ministro degli Esteri D'Alema, che si è speso in prima persona girando sezione per sezione: la Puglia doveva diventare un "laboratorio" per future alleanze con l'Udc, la quale, dopo il voto, si è dissociata dalla candidatura di Vendola presentandone una autonoma nella persona di Adriana Poli Bortone. Ma cosa non ha funzionato in questa che sembrava una macchina discretamente oliata, pronta - almeno nelle intenzioni di D'Alema e dei suoi - a mietere vittime? Per prima cosa il candidato: poco appeal, poca visibilità rispetto al governatore dalla parlata magica e coinvolgente; senza contare che si stava ripresentando uno che era già stato bocciato, anche se di misura, dal popolo delle primarie, che quindi si era chiaramente espresso in merito. Per secondo, un errore politico ammesso dallo stesso D'Alema: dice di "non aver capito" quello che si muoveva, di aver "toccato con mano il distacco che c'è tra noi e la nostra base": come ha sintetizzato Castagnetti, i dirigenti da una parte e gli elettori dall'altra. E allora a poco è valso l'impegno profondo di D'Alema se la base non era disposta a comprendere le ragioni della candidatura di Boccia, ma si riconosceva, ciononostante, nel comunista Vendola.
Quest'ultima parte del discorso riporta in auge il tema delle primarie: primarie sì o primarie no? Per Follini, "le primarie fanno sbandare il Pd, ci portano fuori strada" e dentro il Pd in molti, anche se sotto voce, concordano con lui. Anche se due pezzi grossi come Loiero e Bassolino le invocano, evidentemente per non perdere il passo e "pretendere" una nuova candidatura che in altre occasioni potrebbe essere in dubbio. Ma in realtà, finora, nella scelta dei candidati governatori, le primarie non sono state prese in considerazione, se non in quelle situazioni dove gli alleati del Pd o talora uomini del Pd non erano d'accordo sulla candidatura indicata da Roma, disattendendo in toto le promesse fatte in passato riguardo le elezioni primarie, unico mezzo attraverso cui indicare candidati per le elezioni. Per esempio, Burlando, Penati, Bresso o Bonino sono nomi piovuti dal centro, non scelti in accordo con la base.

Certamente il centrodestra in merito alla scelta di candidati non può dare lezioni, ma forse la leadership di Berlusconi, attraverso cui passano tutte le decisioni, assicura una "tenuta centripeta" che si dimostra utile a salvaguardare l'unità del partito. Il Pd, al contrario, soffre ancora di troppi maldipancia - che il segretario fatica a calmare - per le spinte della minoranza interna e di coloro pronti ad abbandonare presto.

martedì 19 gennaio 2010

IL RICORDO DI CRAXI

Ci sono marchi, nella vita, che rimangono impressi a lungo e solo difficilmente e tardivamente vengono scalfiti dal tempo e dalla ragionevolezza. Così è quello spettato a Bettino Craxi: essere identificato come il politico più corrotto d'Italia, il paradigma della stagione di Tangentopoli, il bersaglio preferito dei giudici di Milano. A dieci anni dalla sua scomparsa, val la pena di aprire gli occhi - come per altro hanno fatto alcuni commentatori - ed analizzare la figura di Craxi nella sua totalità, "senza distorsioni e rimozioni".

Bettino Craxi è stato innanzitutto un grande uomo politico, un autorevole presidente del Consiglio, in grado di imprimere svolte importanti sia nella politica interna sia nella politica estera. Innanzitutto la rottura dell'asse tra i due principali partiti repubblicani, Democrazia cristiana e Partito comunista, formatosi dopo il 1976: l'obiettivo, oltrechè legittimo, era ambizioso, tanto più che si verificava in un momento in cui in Europa i partiti socialisti pesavano nei rispettivi Paesi. Aveva inoltre compreso che il sistema politico era bloccato e aveva proposto un suo cambiamento, suggerendo l'elezione diretta del presidente della Repubblica. Come dimenticare poi il referendum sulla "scala mobile" e il Concordato firmato nel 1984 con il cardinale Casaroli? E poi la politica estera, che aveva permesso "un rinnovato, deciso ancoraggio dell'Italia al campo occidentale e atlantico": aveva portato avanti la politica di Cossiga riguardo i missili Cruise a Comiso, ma aveva anche saputo farsi rispettare nel corso della vicenda di Sigonella, relativa al dirottamento dell'Achille Lauro, senza tuttavia intaccare i rapporti col presidente USA Reagan.
Ricorda inoltre Sergio Romano:
Una delle sue caratteristiche più discusse fu quella che venne definita, con un termine ingiustamente spregiativo, decisionismo. Oggi, dopo l' importanza assunta da alcune personalità nella vita politica dei maggiori Paesi democratici dovremmo riconoscere che Craxi capì qual fossero, soprattutto in un'epoca di grandi modernizzazioni, le responsabilità di un leader.

Certo, oltre a questa parte della storia, non possiamo dimenticarci che "lo stile craxiano del potere produsse anche conseguenze", tra le quali quella più evidente è lo scoppio di Tangentopoli, vale a dire un sistema di tangenti che ha avvelenato la vita dello Stato italiano e provocato gravi danni al bilancio del Paese. Memorabile il discorso pronunciato il 3 luglio 1992 alla Camera dei Deputati, presieduta da quel Napolitano che oggi invita tutti a rivedere i giudizi parziali e affrettati su Craxi, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo Amato. Lì egli ha avuto il coraggio di denunciare un sistema di illegalità che ben conosceva, di cui nessuno prima di lui aveva osato parlare, così come nessuno quel giorno in Aula si era alzato per testimoniare la stessa responsabilità dell'onorevole Craxi. E questo vuoto della politica, incapace di riconoscere le anomalie di un sistema di "corruttele" e di rinnovare le regole che apparivano antiquate, aveva lasciato spazio alla marea della magistratura, che alla politica si è sostituita, spazzandola via. Senza contare chi, grazie a quei processi, si era fatto la giusta pubblicità per poi scendere in politica.
La "vittima sacrificale", come l'ha definito il presidente Schifani, l'unico ad aver pagato il prezzo più alto è stato Bettino Craxi. Perchè forse la Dc e il Pci non avevano preso finanziamenti illeciti? Vogliamo dimenticarci di Severino Citaristi o del compagno Cossutta che volava a Mosca?
La colpa a senso unico, attribuita ad una sola persona, è francamente inaccettabile. E questo ancora di più alla luce di ciò che è oggi la politica: siamo sicuri che Tangentopoli abbia spazzato via tutto il marcio? O tutto sotto sotto è rimasto uguale?


sabato 16 gennaio 2010

IL "CARATTERACCIO" TUTTO ITALIANO



Il caratteraccio. Come (non) si diventa italiani

Vittorio Zucconi

Mondadori

€ 18,50

Vi avevo già parlato di questo libro, di cui ho avuto il piacere di ascoltare la presentazione alla presenza di Vittorio Zucconi al collegio Ghislieri di Pavia. Il libro ci fornisce, in buona sostanza, uno spaccato dell'italiano medio, afflitto da molti vizi e poche virtù, che, non perdendo mai l'occasione di denigrarsi, ha maturato la certezza che quello italiano sia un "caratteraccio".
Il libro nasce riunendo una serie di "lezioni americane" tenute da Zucconi al Middlebury College tra le colline verdi del Vermont, conscio di rivolgersi non ad accademici ma ad una platea di studenti che sa molto poco dell'Italia. Si tratta di lezioni sui generis, che non partono, come i classici libri scolastici, dal Medioevo o dal Rinascimento (che Zucconi mal sopporta), ma piuttosto si soffermano sull'Italia dell'ultimo secolo, sugli avvenimenti della storia recente utili a comprendere l'Italia di oggi e forse quella del futuro. Prendendo spunto da eventi importanti come la presa di Roma o la Grande Guerra per arrivare fino a Tangentopoli e Berlusconi, Zucconi analizza il nostro comportamento, influenzato fortemente dalla storia, al punto che siamo "un popolo condannato ad ssere sempre anti, il prefisso che si è rivelato il surrogato della nostra identità", dalla politica al calcio passando per la religione e la storia. Il tutto con una vena di sagace ironia da cui traspare affetto per la terra natale, frammisto a racconti di esperienze personali. L'unico appunto che mi sento di fare riguarda la forma, caratterizzata da periodi abbastanza lunghi e con molti incisi, che possono risultare di "distrazione" per il lettore.

martedì 12 gennaio 2010

PERCHE' NEGRO E' PAROLA CHE SI PUO' USARE

I retaggi del '68 si annidano in molti aspetti della nostra vita quotidiana. Mi sono imbattuto, proprio sul Corriere di ieri, nella rubrica Particelle elementari di Pigi Battista, che spiega a Vittorio Feltri "perché è parola da non usare". E ho pensato: ci risiamo, ancora la solita retorica sessantottina sfociata nel politicamente corretto, per cui restiamo intrappolati a ogni piè sospinto in una "gabbia asfissiante di ipocrisie lessicali e di eufemismi sussiegosi che sfibrano un linguaggio", come ha detto lo stesso Battista.
Il dizionario etimologico segnala che "negro" deriva dal latino "niger" ("niger, a, um": aggettivo della I classe, come mi ricordano i remoti cassetti della mia memoria), dal cui accusativo "nigrum" deriva l'odierno aggettivo italiano. Perchè allora tanto scandalo? Perchè "i negri (...) associano quel nome (...) a un passato di schiavitù e di umiliazione indicibili", quella parola "racchiudeva in sè qualcosa di dispregiativo (...) che conferiva a quel termine un valore implicitamente squalificante, anche a non voler pensare (con una certa fatica) a un'implicazione di tipo razzistico". Anche se, ricorda sempre il giornalista, Martin Luther King e Malcolm X usavano quel termine, ma lo facevano rivendicando l'orgoglio della loro "negritudine".

Caro Battista, io non sono proprio d'accordo con questa interpretazione. Cerchiamo di uscire dalle sabbie mobili del perbenismo post-sessantottino per il quale oggi per le strade abbiamo gli "operatori ecologici" oppure a scuola lavora il "personale non docente" e via discorrendo. Usare la parola "negro" o "nero" è indifferente: ciò che più conta è il tono con il quale viene pronunciata o gli aggettivi che la accompagnano, non la parola in sè, che deriva dal latino di Cicerone. Posso dire che "Naomi Campbell è una bella negra", facendole un complimento, o insultare Mario Balotelli se dico che è "un negro di m..." Questa è la differenza, non la "g" che distingue i due termini.
Il nostro problema fondamentale è che siamo ancora prigionieri della pesante eredità di quel '68 che, glorificato ad anno di svolta, ha dimostrato di aver dato ben pochi frutti alla nostra società, incastrandola in una rete di ipocrisia che ammanta qualsiasi ambito della vita quotidiana. Perciò se qualcuno pronuncia la parola "negro" a tanti viene la pelle d'oca e si pensa che chi l'ha pronunciata è un razzista, senza badare al contesto del discorso.
Vogliamo iniziare la fatica di redimerci dalla ancora imperante retorica sessantottina aprendo gli occhi sul mondo del 2010?

sabato 9 gennaio 2010

BOOM DEI CELLULARI

Ho letto questa notizia oggi su Corriere.it e ho sorriso, in maniera sarcastica s'intende.
A fine 2008 nella penisola italiana circolavano 155,77 sim card ogni 100 persone: il che vuol dire una e mezzo a testa, contro le 129,35 sim ogni cento tedeschi, le 125,99 inglesi, le 90,19 francesi, le 89,60 americane, le 83 giapponesi e le 65 canadesi. Nella telefonia fissa, al contrario, raschiamo il fondo del barile con 40,11 apparecchi ogni cento persone, rispetto ai 54,23 apparecchi inglesi, i 64,17 tedeschi, i 40,90 francesi, i 46 giapponesi, i 58 canadesi e i meno di 50 americani. Il trend è sicuramente in linea con quanto succede negli altri sei Paesi del G7, ma risulta molto più accentuato in Italia.
Dicevo di aver sorriso alla notizia perchè è singolare questo record: in un Paese che spesso si lamenta di non "arrivare a fine mese", non è certamente indispensabile avere un cellulare e mezzo a testa, essendo considerato un bene superfluo. Non solo lo posseggono gli adulti, i quali sono giustificati per questioni lavorative; i ragazzini, fin da giovani, ne posseggono uno o più di uno per fare tutt'altro rispetto alle funzioni di un cellulare: ascoltano musica, ricevono le frequenze radio, fanno fotografie, registrano filmati o spezzoni audio, trasferiscono files.

Sarò fuori dal tempo, ma fatico a comprendere una vicinanza così spasmodica al cellulare.

giovedì 7 gennaio 2010

TRENO: UNA IATTURA!

Zug, tren, train: nelle principali lingue del mondo la parola "treno" indica un diffuso mezzo di comunicazione, viaggiante su rotaia ed alimentato con l'elettricità. In Italia, invece, dire "treno" è una iattura, significa evocare una vera e propria tragedia, comporta il cambiamento d'umore - in negativo, s'intende - di chi è all'ascolto. Perchè, per noi Italiani, il treno è quel mezzo di locomozione che viaggia costantemente in ritardo, che è sempre sporco (ci ricordiamo quando si viaggiava in compagnia delle zecche?), che costringe i pendolari alla lotta spietata per accaparrarsi un posto a sedere, che sfinisce i viaggiatori quando devono compiere un viaggio lungo.

sabato 2 gennaio 2010

L'AIRONE HA SMESSO DI VOLARE



Il grande corridore, lontano dalle corse, appariva simile a un airone: splendido in volo ma sgraziato e a disagio una volta costretto a toccare terra.

Così parla di Coppi Giancarlo Governi nel libro Il grande Airone. Il romanzo di Fausto Coppi (e di Gino Bartali), come di una persona che era una cosa sola con la sua bicicletta. E proprio lui, il 2 gennaio di cinquant'anni fa ha smesso di sbattere le ali e librarsi nell'aria per toccare per sempre terra: a soli 40 anni, di cui quasi metà dedicati al ciclismo, Coppi se ne va e lascia un vuoto che non è stato colmato da nessun altro ciclista; nessun altro ha raggiunto i suoi memorabili risultati, nessuno ha creato la sua leggenda, nessuno ha dominato le due ruote come l'Airone di Castellania.


Oggi, 2 gennaio 2010, abbiamo salutato il mitico Fausto Coppi, ritornando in quella piccola e tranquilla Castellania, tra le colline tortonesi stamani imbiancate dalla brina, in un contesto paesaggistico stupendo, considerando il sole alto nel cielo terso e un'aria fresca che accarezzava il viso.

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