Un mezzo all'apparenza tanto innocuo come la bicicletta ci consegna, nell'arco di due soli giorni, due terribili notizie, di quelle che fanno meditare e portano tanto sconforto.
La prima riguarda il corridore belga Wouter Weylandt, 25 anni, che due giorni fa ha perso la vita in una tremenda caduta nella discesa del passo del Bocco, a una ventina di chilometri da Rapallo, arrivo della 3^ tappa del Giro d'Italia, partita da Reggio Emilia; traumi cranico e facciale per il giovane ciclista della Leopard-Trek, che in settembre sarebbe diventato papà e per il quale fin da subito le condizioni sono parse gravissime: nonostante i 40 minuti di rianimazione, non c'è stato nulla da fare, Wouter non ce l'ha fatta. Ieri la carovana del Giro gli ha reso omaggio, correndo unita per tutta la tappa: commuovente la scena di Livorno, quando tutti i corridori della Leopard-Trek hanno superato abbracciati il traguardo, con il gruppo a breve distanza: nessun festeggiamento ieri, niente musica e niente intrattenimento alla fine della tappa, non c'era proprio la voglia né lo spirito. Non è bastato il sostegno del gruppo a permettere alla squadra di Weylandt di continuare la corsa rosa: Tyler Farrar, grande amico nonché suo compagno di squadra, e tutta la Leopard-Trek hanno salutato il Giro d'Italia, vinti dal dolore profondo ed evidentemente insuperabile per la scomparsa di un compagno di squadra molto amato.
La seconda notizia riguarda una ragazza di 27 anni e dalle belle speranze, Pamela Vidale, ricercatrice presso il Dipartimento di Genetica dell'Università di Pavia, che lunedì ha trovato la morte sul pavé di Piazza della Minerva, a Pavia, investita da un autobus. Enorme lo sgomento per il tragico fatto, tutto il Dipartimento è sotto shock, la notizia è piovuta come un masso. Perché era ben voluta, stimata, "speciale, gentile, educata come adesso ce ne sono pochi", ricorda Elena Giulotto, che l'aveva seguita fin dalla laurea triennale ed ora era la sua responsabile per il dottorato di ricerca. Dai colleghi viene descritta come "modesta, attenta al suo lavoro, un percorso costruito con impegno, sorridente con i suoi 27 anni", lei che lavorava sui telomeri e sull'organizzazione dei cromosomi. A breve, a partire dal primo giugno, sarebbe cominciata una nuova avventura: una borsa di studio dal Cnr per lavorare in un ambito in parte diverso, ma comunque di suo interesse. Eppure, anche Pamela come Wouter, ha trovato la morte in sella alla sua bicicletta: per Pamela non è stato un muretto in discesa a farle perdere il controllo del mezzo, bensì la disattenzione di un autista.
Dura la vita da ciclisti, come ricorda un interessante pezzo di Gianni Mura su Repubblica che vi propongo alla fine del post. Dura sia per i ciclisti di città, continuamente alle prese con buche larghe come crateri, auto a folle velocità, bus incuranti della viabilità cittadina. Durissima pure per i ciclisti professionisti, che, per non perdere tempo prezioso, si lanciano nelle discese a velocità elevate, eseguono curve e tornanti mozzafiato, si spingono a sfidare l'asfalto viscido nelle giornate di pioggia, il tutto su mezzi che, per tenere il passo della tecnologia, sono sempre più leggeri e con ruote così sottili da sfidare le leggi fisiche dell'attrito. Ciononostante, fa piangere il cuore apprendere che un mezzo apparentemente così poco pericoloso possa portarci via due giovani, pieni di voglia di vivere e di progetti, due persone strappate ai propri cari da una fatalità, due persone profondamente amate.
Da ciclista, per un anno anche a livello agonistico, mi viene naturale confermare quanto siamo bistrattati, quanto poco siamo considerati da chi circola su strada: e non parlo solo di auto, bus o camion, che quando ci superano sembra ci evitino - visto quanto ci passano vicino, ma anche di gestori delle strade, i quali poco si curano dello stato del manto stradale, che gioca spesso un ruolo di primo piano nel causare cadute, oltre che arreccare problemi a tutti coloro che percorrono la strada, dal tir allo scooter fino alla bicicletta. E' anche giusto, però, riconoscere che esistono automobilisti e camionisti che, con grande sensibilità, prestano attenzione ai ciclisti in strada, per esempio - per fare un esempio banale, ma a mio parere significativo - utilizzando l'indicatore di direzione quando sorpassano un velocipede; esistono altresì enti locali, che si preoccupano dei ciclisti, sorvegliando la situazione delle strade - e non solo quando un'importante gara ciclistica transita su quelle strade - o costruendo e/o incoraggiando piste ciclabili.
Ciò che più dispiace è che tali problemi, annosi e a lungo dibattuti, occupano lo spazio di uno o due giorni per poi ripiombare nel silenzio più assordante.
La prima riguarda il corridore belga Wouter Weylandt, 25 anni, che due giorni fa ha perso la vita in una tremenda caduta nella discesa del passo del Bocco, a una ventina di chilometri da Rapallo, arrivo della 3^ tappa del Giro d'Italia, partita da Reggio Emilia; traumi cranico e facciale per il giovane ciclista della Leopard-Trek, che in settembre sarebbe diventato papà e per il quale fin da subito le condizioni sono parse gravissime: nonostante i 40 minuti di rianimazione, non c'è stato nulla da fare, Wouter non ce l'ha fatta. Ieri la carovana del Giro gli ha reso omaggio, correndo unita per tutta la tappa: commuovente la scena di Livorno, quando tutti i corridori della Leopard-Trek hanno superato abbracciati il traguardo, con il gruppo a breve distanza: nessun festeggiamento ieri, niente musica e niente intrattenimento alla fine della tappa, non c'era proprio la voglia né lo spirito. Non è bastato il sostegno del gruppo a permettere alla squadra di Weylandt di continuare la corsa rosa: Tyler Farrar, grande amico nonché suo compagno di squadra, e tutta la Leopard-Trek hanno salutato il Giro d'Italia, vinti dal dolore profondo ed evidentemente insuperabile per la scomparsa di un compagno di squadra molto amato.
La seconda notizia riguarda una ragazza di 27 anni e dalle belle speranze, Pamela Vidale, ricercatrice presso il Dipartimento di Genetica dell'Università di Pavia, che lunedì ha trovato la morte sul pavé di Piazza della Minerva, a Pavia, investita da un autobus. Enorme lo sgomento per il tragico fatto, tutto il Dipartimento è sotto shock, la notizia è piovuta come un masso. Perché era ben voluta, stimata, "speciale, gentile, educata come adesso ce ne sono pochi", ricorda Elena Giulotto, che l'aveva seguita fin dalla laurea triennale ed ora era la sua responsabile per il dottorato di ricerca. Dai colleghi viene descritta come "modesta, attenta al suo lavoro, un percorso costruito con impegno, sorridente con i suoi 27 anni", lei che lavorava sui telomeri e sull'organizzazione dei cromosomi. A breve, a partire dal primo giugno, sarebbe cominciata una nuova avventura: una borsa di studio dal Cnr per lavorare in un ambito in parte diverso, ma comunque di suo interesse. Eppure, anche Pamela come Wouter, ha trovato la morte in sella alla sua bicicletta: per Pamela non è stato un muretto in discesa a farle perdere il controllo del mezzo, bensì la disattenzione di un autista.
Dura la vita da ciclisti, come ricorda un interessante pezzo di Gianni Mura su Repubblica che vi propongo alla fine del post. Dura sia per i ciclisti di città, continuamente alle prese con buche larghe come crateri, auto a folle velocità, bus incuranti della viabilità cittadina. Durissima pure per i ciclisti professionisti, che, per non perdere tempo prezioso, si lanciano nelle discese a velocità elevate, eseguono curve e tornanti mozzafiato, si spingono a sfidare l'asfalto viscido nelle giornate di pioggia, il tutto su mezzi che, per tenere il passo della tecnologia, sono sempre più leggeri e con ruote così sottili da sfidare le leggi fisiche dell'attrito. Ciononostante, fa piangere il cuore apprendere che un mezzo apparentemente così poco pericoloso possa portarci via due giovani, pieni di voglia di vivere e di progetti, due persone strappate ai propri cari da una fatalità, due persone profondamente amate.
Da ciclista, per un anno anche a livello agonistico, mi viene naturale confermare quanto siamo bistrattati, quanto poco siamo considerati da chi circola su strada: e non parlo solo di auto, bus o camion, che quando ci superano sembra ci evitino - visto quanto ci passano vicino, ma anche di gestori delle strade, i quali poco si curano dello stato del manto stradale, che gioca spesso un ruolo di primo piano nel causare cadute, oltre che arreccare problemi a tutti coloro che percorrono la strada, dal tir allo scooter fino alla bicicletta. E' anche giusto, però, riconoscere che esistono automobilisti e camionisti che, con grande sensibilità, prestano attenzione ai ciclisti in strada, per esempio - per fare un esempio banale, ma a mio parere significativo - utilizzando l'indicatore di direzione quando sorpassano un velocipede; esistono altresì enti locali, che si preoccupano dei ciclisti, sorvegliando la situazione delle strade - e non solo quando un'importante gara ciclistica transita su quelle strade - o costruendo e/o incoraggiando piste ciclabili.
Ciò che più dispiace è che tali problemi, annosi e a lungo dibattuti, occupano lo spazio di uno o due giorni per poi ripiombare nel silenzio più assordante.
Vita da ciclista
Gli operai delle due ruote
Pedalano per 42 mila chilometri l'anno, guadagnano meno degli altri atleti e faticano di più. E rischiano la vita, come è successo al belga Weylandt. Ma è grazie a loro che il ciclismo, nonostante il doping, è ancora amato dalla gente
di GIANNI MURA
I poveri sono matti, diceva Zavattini. Anche i ciclisti, vorrei aggiungere. Non fuori di testa, ma con quel briciolo di pazzia che li porta a scegliere uno sport di estrema fatica, di molti rischi, di guadagni relativamente bassi. Una volta, era normale, quasi automatico. La bici servì a Binda per non continuare a fare lo stuccatore, sia pure in Costa Azzurra, a Coppi per sottrarsi alla zappa da usare sui costoni argillosi di Castellania. Erano e sono stati, per molti anni, ciclismo e pugilato lo sport degli affamati, il treno su cui saltare in cerca di fortuna. E pazienza se non era l'Orient Express ma una terza classe fumatori, di quelle su cui saliva Fiorenzo Magni su fino al Nord, dormiva come poteva, sempre con un occhio alla bici, e poi vinceva il Giro delle Fiandre. A volte ho pensato che il ciclismo fosse, per i poveri, una soluzione come il seminario: una bocca di meno in casa. La vocazione serve ai preti e serve ai ciclisti. A chi stanno più a cuore le anime, a chi i corpi. Ma si è sempre a metà: correre a piedi, correre in bici, e l'uomo è ancora il motore di se stesso, correre a motore. I nostri figli certi lavori non li vogliono più fare, si continua a sentir dire in giro, per questo c'è bisogno degli immigrati. Sì, ma come la mettiamo con certi sport? Isoliamo per un po' il doping, che comunque è un rischio in più, e gravissimo. Con o senza, è una fatica da bestie, anche se le bici pesano meno, anche se le strade sono più lisce, anche se i chilometraggi sono più miti, anche se gli alberghi non sono più topaie, anche se si è seguiti da un medico o da un preparatore atletico (fin troppo, talvolta). Ieri al Processo alla tappa Bettini ha detto che il ciclismo è uno sport che fa sentire liberi. Forse sì, ma facendo una vita da schiavi. Non esiste uno sport in cui io debba comunicare alla superiore autorità ogni mio spostamento. Io ciclista devo essere reperibile tutti i giorni dell'anno, anche in vacanza, anche il giorno in cui vado a un funerale o cambio idea: non vado in pizzeria, vado al cinema. Sono un sorvegliato speciale, un vigilato a vista. Ed è anche colpa mia, o della mia categoria, ma io ciclista sogno il giorno in cui, a poche ore dal derby di Milano o di Barcellona, si presenteranno i cavasangue, come si presentano nei nostri alberghi alle sette del mattino, e magari quel giorno si fa il Ventoux o il Mortirolo, ma se anche fosse una tappa piatta come una mano la sostanza non cambia, anche il più pulito può avere la rogna (questo non è scritto ma lo sappiamo). Io ciclista, che adesso non posso più fare nemmeno una puntura di vitamine, penso a com'è bella la vita dei calciatori, che giocano un'ora e mezzo la domenica e il lunedì riposano, mentre noi dopo una tappa alpina ne abbiamo un'altra e un'altra ancora. Forse è per questo che la gente ci vuole bene, nonostante le macchie di doping che hanno imbrattato questo e quello, campioni e poveracci che tengono l'anima coi denti per arrivare in tempo massimo. E' per questo che la gente ha capito il funerale di ieri, i compagni del morto davanti, come la Motorola per Casartelli, nel '95, e poi la bici numero 114, quella di Fabio, issata sul tetto dell'ammiraglia fino a Parigi, alla sfilata sui Campi Elisi, come una bandiera di metallo, un ricordo piantato nel cervello, un singolare modo, ma trovatene voi un altro, per rendere onore alle armi. Perché, torno a dirlo, il ciclista si guadagna il pane lontano da casa, come gli emigranti stagionali e i soldati, e dico soldati perché esiste il capitano per definizione, mentre il tenentino è un giovane di belle speranze e il sergente è il più vecchio, tant'è che lo si definisce anche direttore sportivo in corsa. C'è l'attacco improvviso (il raid) e quello preparato a tavolino, ci sono le alleanze, per simpatia o per quattrini, ci sono le grandi manovre, le fughe (ma chi va in fuga nel ciclismo non è un disertore, è un eroe, c'è una bella differenza). Ci sono gli agguati, le imboscate, le trattative segrete, quelli che hanno studiato dicono che il ciclismo è una chanson de geste, tirano in ballo Omero. Ettore era uno pulito, Achille un dopato. E però, però, la madre di Weylandt che lungo la discesa del Bocco s'inginocchia e bacia l'ultimo pezzo di terra che ha accolto il corpo del figlio, questo sì è omerico nel senso di antichissimo e straziante. Poteva maledirli, quella discesa e quel muretto, con l'urlo di tutte le madri, anche le pecore quando si vedono portar via gli agnellini e sanno che cosa li aspetta. Poteva restare di pietra, per non sbriciolarsi sotto l'urto di un dolore troppo forte e inatteso. Si erano mossi da Gand perché l'anno scorso il loro ragazzo aveva vinto la terza tappa e quest'anno la terza tappa gliel'ha portato via. No, s'è inginocchiata e ha baciato la terra, come faceva papa Wojtyla, come ha fatto la Schiavone al Roland Garros, ma qui era diverso. Qui tante cose sono diverse da quello che sembrano. Anche pedalare in gruppo è rischioso, basta sbandare di cinque centimetri e si fa come una palla da bowling. Si fa fatica sempre, ad attaccare e ad inseguire, a salire e a scendere, a tirare la volata come a vincerla, a fare una cronosquadre oppure una crono individuale. Quale altro sport obbliga, da professionisti, a continuare a pedalare anche espletando le cosiddette funzioni corporali, e non solo di pisciare si parla? Certo, ti puoi anche fermare dietro a un cespuglio come Gaul, che per quella fermata perse il Giro del '57. In casi del genere il codice d'onore (non scritto) stabilisce che non si attacca, ma Bobet e Nencini non la pensarono allo stesso modo o forse (erano i tempi dei veri duri) pensarono che un ciclista che per certe cose ha bisogno d'appartarsi non merita rispetto. Peggio per lui. Anche questo episodio dimostra che il ciclismo è come la vita e per questo lo capiscono tutti. La gente sa che sulla canna della bici c'è la ventura (l'avventura, anche) e la sventura. Ed è per questo che la morte di Weylandt non appartiene solo alla sua famiglia, né a quella, allargata, del gruppo, ma a tutti quelli che si son fatti il segno di croce quando passava il gruppo, a quelli che non hanno saputo trattenere le lacrime quando una tromba ha intonato il Silenzio oltre il traguardo. Riconoscersi in un momento di dolore, non di vittoria, non è da tutti e io credo che quella sia l'Italia vera, l'Italia che ne ha piene le palle di Berlusconi e dei suoi attacchi ai giudici, di Nicole, di tante cose che riempiono i giornali e i telegiornali, di liti finti e vere, di poteri spartiti, di un Paese col lifting spacciato per realtà, con la guerra che si deve chiamare con un altro nome, con i morti sul lavoro che non hanno l'eco di Weylandt, morto in diretta tv al Giro dei 150 dell'unità d'Italia, un'unità che a volte si fatica a intravvedere, ma per Weylandt c'è stata. Unità. Rispetto. Dolore condiviso. Silenzio. Pantani l'aveva detto: vado forte in salita per abbreviare la mia agonia. L'aveva detto con estrema chiarezza, con parole più da poeta che da scalatore. Un ciclista non sogna certo di morire, ma sa che può capitargli. Un ciclista sogna la grande fuga, l'andar via da tutti, l'isolamento, tutte cose che sono l'altra faccia della morte ma in qualche modo la evocano. Il ciclista è un personaggio buzzatiano, e infatti Buzzati sui ciclisti ha scritto pezzi bellissimi: a volte, come i messaggeri dell'imperatore, si spinge così lontano che non torna più. Il ciclista può essere Bertoldo. Un vecchio suiveur, ma ormai lo sono anch'io, mi ha raccontato di un gregario toscano al Tour negli anni '50, sono indeciso tra Ferlenghi e Falaschi. Allora, si raccoglievano le dichiarazioni di tutti gli italiani, non solo di Bartali o Coppi. "Com'è andata, eh?" indagò un giovane cronista al termine di un tappone pirenaico sotto un sole che c'è solo sui Pirenei. "Su e giù, su e giù, come pulirsi il culo a revolverate" fu la risposta. Il ciclista gira il mondo, una volta erano Belgio, Francia e Spagna, adesso anche Malaysia, Qatar, Giappone. Gira il mondo ma non lo vede, non può guardare i paesaggi né i monumenti. Gira il mondo e mangia sempre le stesse cose. Vede solo lettini per il massaggio e camere d'albergo, che nel tempo si son fatte più confortevoli. Ho visto Merckx e altri 80 corridori dormire nel liceo di Luchon su brandine stese nei corridoi, sei docce e sei wc per tutti, prendere o lasciare. Prendere, se non prendi non sei un ciclista e in più l'organizzatore ti sbatte a casa perché non si può rifiutare l'alloggio assegnato. E allora, perché oggi uno non sceglie il tennis, il golf, la pallavolo? "Per passione" rispondono i ciclisti. Passione ha la stessa radice di patire e patire è un po' morire. Questo non spiega tutto ma molte cose sì.
Gianni Mura, Repubblica.it
fate delle piste ciclabiliiiiiiii
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