28 maggio 1980 - 28 maggio 2010: scattano oggi trent'anni esatti dalla morte, a Milano in via Salaino intorno alle 11,10, di Walter Tobagi, giornalista del Corriere della Sera, assassinato da un commando di terroristi della Brigata XXVIII aprile. Per ricordare uno dei giornalisti di punta del Corriere di quell'epoca, la Fondazione Corriere della Sera ha organizzato ieri, presso la Sala Buzzati a Milano, un incontro con alcuni esponenti del sindacato, del giornalismo, del mondo cattolico e del mondo politico per ricordare il contesto in cui avvenne l'uccisione di Tobagi e soprattutto per rendere omaggio ad un grande uomo, presenti in sala anche la figlia Benedetta e la moglie Stella. La stessa Fondazione ha pubblicato il libro Walter Tobagi, ieri e oggi, in cui sono raccolti alcuni dei suoi articoli più illuminanti riletti dalle firme del Corriere, quasi ad istituire un parallelismo tra il periodo di Tobagi e quello attuale, a rintracciare punti di contatto ed evoluzioni o involuzioni oltre che a fornire a noi tutti una sana ed interessante lettura.
Ma chi è Walter Tobagi? Difficile per me descriverlo, per me che ne sento parlare da poco tempo e che mi devo affidare principalmente ai suoi scritti e alle testimonianze di quanti, tra giornalisti e lettori, l'hanno conosciuto. A tal proposito sono andato a rivedermi la splendida puntata di La Storia siamo noi intitolata Perché Tobagi, in cui Minoli ripercorre il momento tragico della morte e indaga sul contesto che ha preceduto l'uccisione e sui fatti successivi, taluni ancora avvolti dal mistero. Rivivere con le immagini quei momenti strazianti mi ha toccato, sono precipitato per qualche minuto in quel periodo a respirare quella cappa pesante di continuo sospetto e soffocante inquietudine, che non ti fa vivere serenamente, né camminare tranquillo per strada ma - annota Tobagi in appunti inediti mostrati dalla figlia - "ti viene da sobbalzare ogni volta che una macchina ti passa a fianco". E poi leggo alcuni articoli raccolti nel libro succitato e assaporo un gusto tutto particolare: apprezzo fino in fondo innanzitutto il sommo amore per la scrittura, l'estremo piacere nel riempire le pagine bianche raccontando fatti che spaziano dal costume alla cultura fino alla politica, la meticolosità nella descrizione, una capacità analitica praticamente unica e unanimemente riconosciuta. Memorabile l'ultimo articolo apparso sul Corriere della Sera il 20 aprile 1980 dal titolo Non sono samurai invincibili, dopo il quale, visti i pericoli sempre maggiori che avverte intorno a lui, decide di abbandonare le inchieste sul terrorismo.
(...) il tentativo di conquistare l'egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. (...) il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazione dell’azione in fabbrica. È una mossa spregiudicata; i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori la respingono. (...) Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche. (...) Intendiamoci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno. (...) La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo (...) La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle Br come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coserenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica. (...) La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emer- se falle e debolezze. (...)
Ogni volta che si ricorda un uomo scomparso si rischia di trascendere dal ricordo alla retorica: sento che per Tobagi non è così, per lui che a 29 anni giunge alla cronaca del Corriere, segno di capacità indubbiamente speciali, affinate dall'esperienza cominciata al giornale del liceo Parini di Milano La Zanzara (diretta all'epoca da un altro pariniano, Vittorio Zucconi), passando per L'Avanti! e Avvenire. Tutti sono concordi nell'esaltare le sue doti, al punto che Leonardo Sciascia a caldo aveva affermato: "Lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Quale miglior frase per compendiare in poche parole quelle doti di razionalità e lucidità amalgamate dalla passione umana e sociale, per ricordare l'inflessibile serietà dell'uomo abbinata a un grande senso dell'avventura e a una fervida curiosità che gli hanno fatto tristemente guadagnare le attenzioni dei terroristi, che avevano ragione di temerlo. Tobagi mostra di amare sì il suo lavoro, ma anche di voler combattere la sua guerra civile nei confronti del terrorismo con la penna: spesso la forza dell'inchiostro è di molto superiore a quella di una qualsiasi arma da fuoco, l'incisività di parole vergate su un foglio è molto più dirompente dell'esplosione di una bomba. Ma Tobagi non è solo un giornalista: egli è profondamente impegnato nel sindacato, all'interno del quale fonda la corrente Stampa democratica, è un buon marito, come confermato dalla moglie Stella, ed è soprattutto un buon padre, come emerge dal ricordo di Benedetta in particolare, un padre in grado di trasmettere valori, un padre conosciuto soprattutto attraverso gli scritti vista la tenera età alla quale è avvenuto il tragico distacco.
Onore, quindi, a Walter Tobagi, un riformista e un grand'uomo che, come tutti i riformisti e i grand'uomini, fanno paura a coloro che sono accecati semplicemente dall'ignoranza e che lasciano un vuoto incolmabile quando se ne vanno, abbandonando familiari, amici e gente comune appesi ad un filo che non si riannoderà mai.
Ma chi è Walter Tobagi? Difficile per me descriverlo, per me che ne sento parlare da poco tempo e che mi devo affidare principalmente ai suoi scritti e alle testimonianze di quanti, tra giornalisti e lettori, l'hanno conosciuto. A tal proposito sono andato a rivedermi la splendida puntata di La Storia siamo noi intitolata Perché Tobagi, in cui Minoli ripercorre il momento tragico della morte e indaga sul contesto che ha preceduto l'uccisione e sui fatti successivi, taluni ancora avvolti dal mistero. Rivivere con le immagini quei momenti strazianti mi ha toccato, sono precipitato per qualche minuto in quel periodo a respirare quella cappa pesante di continuo sospetto e soffocante inquietudine, che non ti fa vivere serenamente, né camminare tranquillo per strada ma - annota Tobagi in appunti inediti mostrati dalla figlia - "ti viene da sobbalzare ogni volta che una macchina ti passa a fianco". E poi leggo alcuni articoli raccolti nel libro succitato e assaporo un gusto tutto particolare: apprezzo fino in fondo innanzitutto il sommo amore per la scrittura, l'estremo piacere nel riempire le pagine bianche raccontando fatti che spaziano dal costume alla cultura fino alla politica, la meticolosità nella descrizione, una capacità analitica praticamente unica e unanimemente riconosciuta. Memorabile l'ultimo articolo apparso sul Corriere della Sera il 20 aprile 1980 dal titolo Non sono samurai invincibili, dopo il quale, visti i pericoli sempre maggiori che avverte intorno a lui, decide di abbandonare le inchieste sul terrorismo.
(...) il tentativo di conquistare l'egemonia nelle fabbriche è fallito. I terroristi risultano isolati dal grosso della classe operaia. (...) il brigatista cerca di far vedere che la sua lotta armata può essere la continuazione dell’azione in fabbrica. È una mossa spregiudicata; i sindacalisti e la stragrande maggioranza dei lavoratori la respingono. (...) Guardare in faccia la realtà significa non nascondersi il proselitismo che i gruppi armati hanno realizzato nelle fabbriche. (...) Intendiamoci: le Brigate rosse si sforzano di dimostrare una forza superiore a quella reale. Però chi vuol combattere seriamente il terrorismo non può accontentarsi di un pietismo falsamente consolatorio, non può sottovalutare la dimensione del fenomeno. (...) La fabbrica è diventata il centro di uno scontro sociale che poi ha trasferito i suoi effetti nella società, nei rapporti politici. I brigatisti hanno cercato d’inserirsi in questo processo (...) La lezione pare fin troppo chiara: le lotte sindacali più dure, quelle oltre i limiti convenzionali della legalità, sono servite agli arruolatori delle Br come un primo banco di prova e di selezione. Il sindacato dovrà tenerne conto, giacché i proclami nobili vanno accompagnati con revisioni coserenti. Questo può implicare anche una temporanea diminuzione del potere sindacale in fabbrica. (...) La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emer- se falle e debolezze. (...)
Ogni volta che si ricorda un uomo scomparso si rischia di trascendere dal ricordo alla retorica: sento che per Tobagi non è così, per lui che a 29 anni giunge alla cronaca del Corriere, segno di capacità indubbiamente speciali, affinate dall'esperienza cominciata al giornale del liceo Parini di Milano La Zanzara (diretta all'epoca da un altro pariniano, Vittorio Zucconi), passando per L'Avanti! e Avvenire. Tutti sono concordi nell'esaltare le sue doti, al punto che Leonardo Sciascia a caldo aveva affermato: "Lo hanno ammazzato perché aveva metodo". Quale miglior frase per compendiare in poche parole quelle doti di razionalità e lucidità amalgamate dalla passione umana e sociale, per ricordare l'inflessibile serietà dell'uomo abbinata a un grande senso dell'avventura e a una fervida curiosità che gli hanno fatto tristemente guadagnare le attenzioni dei terroristi, che avevano ragione di temerlo. Tobagi mostra di amare sì il suo lavoro, ma anche di voler combattere la sua guerra civile nei confronti del terrorismo con la penna: spesso la forza dell'inchiostro è di molto superiore a quella di una qualsiasi arma da fuoco, l'incisività di parole vergate su un foglio è molto più dirompente dell'esplosione di una bomba. Ma Tobagi non è solo un giornalista: egli è profondamente impegnato nel sindacato, all'interno del quale fonda la corrente Stampa democratica, è un buon marito, come confermato dalla moglie Stella, ed è soprattutto un buon padre, come emerge dal ricordo di Benedetta in particolare, un padre in grado di trasmettere valori, un padre conosciuto soprattutto attraverso gli scritti vista la tenera età alla quale è avvenuto il tragico distacco.
Onore, quindi, a Walter Tobagi, un riformista e un grand'uomo che, come tutti i riformisti e i grand'uomini, fanno paura a coloro che sono accecati semplicemente dall'ignoranza e che lasciano un vuoto incolmabile quando se ne vanno, abbandonando familiari, amici e gente comune appesi ad un filo che non si riannoderà mai.
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