La querelle creatasi tra il direttore di Avvenire Boffo e il Giornale di Feltri sembra, stando alle notizie odierne, più grossa di quello che si poteva pensare.
Navigando su Internet questa mattina, ho potuto scoprire alcune cose interessanti di cui vi metto a conoscenza.
Innanzitutto, ho letto dal sito di Repubblica l'articolo firmato da Giuseppe D'Avanzo ("Su Boffo una velina che non viene dal tribunale"), in cui si dice che
Per gli "appassionati" di questa vicenda, vale la pena sapere che il Giornale non è stato il primo a pubblicare gli "incidenti sessuali" del direttore di Avvenire. Ci aveva già pensato, nel 2005, l'attuale vice-direttore di RedTv e sostenitore della mozione Franceschini Mario Adinolfi sul suo blog.
A tal proposito cito le parole di Franco Abruzzo, direttamente dal sito dell'Ordine dei Giornalisti:
Innanzitutto, ho letto dal sito di Repubblica l'articolo firmato da Giuseppe D'Avanzo ("Su Boffo una velina che non viene dal tribunale"), in cui si dice che
nessuna ordinanza del giudice per le indagini preliminari è mai "accompagnata" da una "nota informativa". E soprattutto nessuna informativa di polizia giudiziaria ricorda il fatto su cui si indaga come di un evento del passato già concluso in Tribunale.L'articolo continua sostenendo che
l'"informativa" riepiloga l'esito del procedimento. Non è stata scritta, quindi, durante le indagini preliminari, ma dopo che tutto l'affare era già stato risolto con il pagamento dell'ammenda. Dunque, non è un atto del fascicolo giudiziario. Per mero scrupolo, lo accerterà anche il procuratore di Terni Cardella che avrà modo di verificare, con i crismi dell'ufficialità, che la nota informativa non è agli atti e che in nessun documento del processo si fa riferimento alla presunta "omosessualità" di Boffo. La "nota informativa", pubblicata dal Giornale del presidente del Consiglio, è dunque soltanto una "velina" che qualcuno manda a qualche altro per informarlo di che cosa è accaduto a Terni, anni addietro, in un "caso" che ha visto coinvolto il direttore dell'Avvenire.Riguardo la parte dell'informativa in cui si dichiara che Boffo fosse "attenzionato" dalla Polizia in quanto omosessuale, D'Avanzo scrive che
Sono interrogativi che si pone anche Roberto Maroni, la mattina del 28 agosto. Il ministro chiede al capo della polizia, Antonio Manganelli, di accertare se esista un "fascicolo" che dia conto delle abitudini sessuali di Dino Boffo. Dopo qualche ora, il capo della polizia è in grado di riferire al ministro che "né presso la questura di Terni (luogo dell'inchiesta) né presso la questura di Treviso (luogo di nascita di Boffo) esiste un documento di quel genere" (...) "Da galantuomo", come dice ora il direttore dell'Avvenire, Maroni può così telefonare a Dino Boffo e assicurargli che mai la polizia di Stato lo ha "attenzionato" né esiste alcun fascicolo nelle questure in cui lo si definisce "noto omosessuale".Insomma, a leggere l'articolo di Repubblica sembra che Feltri e il suo giornale abbiano preso una cantonata. Può essere, non abbiamo i dati per negarlo, anche se mi viene difficile pensarlo, viste le qualità giornalistiche del direttore, sebbene non da tutti apprezzate. Seguiremo gli eventi, ma intanto non posso non segnalare che il direttore Boffo non ha smentito in nessun modo la notizia pubblicata dal Giornale, ma si è limitato semplicemente a definirla "una emerita patacca".
Per gli "appassionati" di questa vicenda, vale la pena sapere che il Giornale non è stato il primo a pubblicare gli "incidenti sessuali" del direttore di Avvenire. Ci aveva già pensato, nel 2005, l'attuale vice-direttore di RedTv e sostenitore della mozione Franceschini Mario Adinolfi sul suo blog.
Pare che il direttore di un quotidiano cattolico abbia ricevuto un decreto penale di condanna. Ma non oggi, l'anno scorso. Tutti i giornali ne sono a conoscenza, a Roma se ne chiacchiera con gusto giusto da un anno, ma per quello strano patto che fa sì che i direttori di giornali si proteggano tra loro, sui giornali non troverete una riga sull'argomento. Il decreto penale di condanna è il 241 dell'annus domini 2004, reso esecutivo il primo di ottobre dello stesso anno. Il tribunale che l'ha emesso è il tribunale di Terni e il giudice che l'ha firmato ha uno strano cognome, da ironie del destino: Fornaci. E' lo stesso Fornaci a firmare il 23 agosto 2005 una strana risposta all'istanza di chi chiede formalmente di conoscere gli atti del procedimento. Fornaci scrive che sì, è vero che esiste un articolo del codice di procedura penale (il 116, per la precisione) che afferma che possa accedere agli atti di un procedimento penale "chiunque vi abbia interesse"; ma in questo specifico caso prevale "una prioritaria tutela del diritto alla riservatezza delle parti (imputato e parte offesa) le cui pregresse vicende interpersonali rischierebbero di determinare - se divulgate - un irreparabile danno alla persona."Ma i giornali non ne scrivono e il tribunale, in nome della "tutela del diritto alla riservatezza dell'imputato", non permette di conoscere gli atti.
A tal proposito cito le parole di Franco Abruzzo, direttamente dal sito dell'Ordine dei Giornalisti:
La Corte di Cassazione e anche i Tribunali e le Corti d’Appello possono rilasciare copie integrali delle sentenze ai giornalisti senza oscurare il nome degli imputati. Lo aveva chiarito la relazione 5 luglio 2005 dell'Ufficio del Massimario della stessa Corte (...) La questione era nata a seguito dell’istanza di un imputato per reati sessuali che, appellandosi all’articolo 52 del Dlgs n. 196 del 2003, aveva sollecitato che il proprio nome pubblicato sulla sentenza fosse sbianchettato. (...) La Suprema Corte ha infatti spiegato che chiunque può richiedere una copia delle sentenze perché in quanto atti pubblici pronunciati "in nome del Popolo Italiano'' e che deve, però, oscurare i dati personali se vuole pubblicarle su una rivista specializzata di informatica giuridica; tuttavia, tale obbligo non vale per la cronaca giudiziaria in senso stretto, che deve assicurare il diritto all'informazione pur nel pieno rispetto dei diritti degli imputati. Nella relazione si affermava infatti che "(...) chi esercita l'attività giornalistica o altra attività comunque riconducibile alla libera manifestazione del pensiero [...] possa trattare dati personali anche prescindendo dal consenso dell'interessato e, con riferimento ai dati sensibili e giudiziari, senza una preventiva autorizzazione di legge o del Garante". Il Codice della privacy nell’attività giornalistica (del 3 agosto 1998) proibisce la pubblicazione dei dati identificativi di un minore o di una persona, che abbia subito violenza sessuale.
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